Responsabilità sociale: l’esempio del coronavirus

L’esempio del coronavirus è adatto a ricordare che la sanità, in quanto “sistema sanitario” e in quanto espressione di uno stato e di un comunità, è una questione sociale oltre che individuale. Ne parliamo con il Dottor Matteo Pacini, specialista psichiatra esperto in dipendenze del Centro Medico Visconti di Modrone.

I dati usciti di recente confermano quanto si vociferava già da diverso tempo, e cioè che la stragrande maggioranza dei casi riguardano soggetti con altre malattie, i quali quindi non sono da considerarsi vittime dirette del coronavirus, ma morti per concorso di cause, tra cui l’ultima, e magari la meno importante in sé, è stato il coronavirus. Qualcuno, ed è istintivo, alla lettura di tali dati tenderà ad essere contento se non rientra nelle malattie “a rischio”, come dire “non tocca a me”. Automaticamente, si immagina che a questo punto le restrizioni possano cadere ed essere limitate ai soggetti a rischio, oppure che questi ultimi, ciascuno per sé, pensino a prendere misure particolari per proteggere se stessi. Così non è, per diversi aspetti.

Intanto, il contagio riguarda in gran parte soggetti che non si ammalano, ma semplicemente fanno da spola. In secondo luogo, la mortalità delle persone “già malate di qualcosa” aumenta comunque in presenza di infezione da coronavirus, per cui non è semplicemente un “fattore scatenante” della morte, ma un fattore con-causale. Inoltre, queste “malattie” pregresse comprendono anche semplicemente malattie già guarite clinicamente (ictus, tumore) o anche asintomatiche (ipertensione), per cui stiamo parlando comunque di soggetti che sono “affetti” da condizioni biologiche, ma non necessariamente stanno già male.

L’argomento però più forte a livello di società è che un “sistema” sanitario protegge i cittadini sulla base del fatto che nessuno è sano, ma che ogni cittadino è un potenziale malato (di una cosa o dell’altra, prima o poi, se non altro per invecchiamento). Non può quindi essere che una società si disinteressi dell’effetto di un contagio perché riguarda soltanto una parte dei cittadini.

Un esempio analogo in psichiatria, su cui da anni commento, è quello delle droghe leggere, e quindi per esempio della cannabis. Saprete che la leggerezza di queste sostanze è definita dal fatto che il loro effetto immediato non è altamente “sconvolgente”, e che la dipendenza è improbabile. Tuttavia, gran parte dei consumatori abituali sviluppano una nota sindrome (detta “amotivazionale”), magari innocua ma deficitaria, e un sottogruppo sviluppa invece quadri psichiatrici gravi, cioè di quelli con perdita del contatto con la realtà e condotte violente. I “canapisti”, ergendosi a difesa della cultura della cannabis, sostengono che sia allarmismo, e che comunque saranno eccezioni sporadiche. Gli psichiatri, che da qualche anno si interessano molto della cannabis, sostengono che la casistica è ampia, e che non esistono cure molto incisive per i malati consumatori di cannabis.

La questione è naturalmente se “proibire” qualcosa che fa male a una minoranza abbia senso. Certamente per il singolo consumatore che non ha conseguenze è un problema. Per la società tuttavia è una questione non da poco. Si tratta di qualche centinaio di persone di giovane età che sviluppano quadri psichiatrici gravi e cronici, e che -in assenza di cannabis- non avrebbero sviluppato quel tipo di malattia, o a quella gravità.

Ricordiamo che quando si ragiona sulle possibili malformazioni che un farmaco dà durante la gravidanza, i numeri che giustificano una “controindicazione” in gravidanza sono molto bassi, sia a tutela di pochi che per prevenire numeri molto maggiori in caso di assenza di avvertimento.

La dimensione sociale è quella per cui, al fine di proteggere una parte di persone dall’esposizione a certi rischi di malattia, la società intera si priva, o si regolamenta, in alcuni comportamenti. In questo caso il nodo è la diffusione di una sostanza, come lo è nel caso del coronavirus. Non si tratta di contagio, ma di disponibilità e clima favorevole all’uso, oltre che spesso di disinformazione sui rischi.

Un ragionamento sociale molto semplice è quello del barista di quartiere che manda a casa l’ubriaco dicendogli che non gli dà più da bere, a rischio di perdere il cliente, ma nella coscienza che riempirgli ancora il bicchiere potrebbe far la differenza. Un ragionamento sociale è anche quello di quegli esercenti che hanno rinunciato a mettere le slot-machine nei loro locali, perdendo un guadagno ma guadagnando sul piano della responsabilità sociale rispetto ai danni da gioco d’azzardo.

Certamente, una stretta sulla diffusione della cannabis produrrebbe una cascata di sanzioni e arresti, visto che più o meno tutti noi abbiamo lo spacciatore nel quartiere o nel condominio. Misure del genere del resto avrebbero un potere deterrente dubbio. Anche lo strumento della “misura alternativa” al carcere è di dubbia utilità, visto che nel caso della cannabis non ci sono cure così consolidate o standardizzate, e che potrebbe diventare una scappatoia per spacciatori che si dichiarano anche “dipendenti”.

Anche in questo caso quindi, come nel coronavirus, bisogna ragionare su quanto le misure siano efficaci ma anche su quanto siano dannose al tessuto sociale ed economico. Tuttavia andrebbe capito che quando si cerca di “frenare” un fenomeno, la questione non è che riguardi pochi, ma è che l’unione fa la forza proprio nel momento in cui un’intera società si mobilita, si informa, o si regola per il bene di un suo “organo” (cioè di un suo sottogruppo di persone) che altrimenti non avrebbe alcun modo di proteggersi.

Qualcuno, per concludere, potrebbe dire che, nel caso di chi si droga, se uno oggi si vuole informare può benissimo scegliere di non mettersi nei guai. Vi può sembrare normale, ma si dà per scontato che leggere degli opuscoli o ascoltare testimonianze, inchieste o quant’altro abbia un’efficacia automatica sui cervelli delle persone esposte al rischio. Non è così.

Del resto, si vede anche con il coronavirus quanto sia diversa la percezione del rischio da persona a persona, e che – nonostante l’evidenza e la semplicità dei dati di un’infezione – molte persone non abbiano particolari remore ad assembrarsi, riunirsi in particolari occasioni, affollarsi in vie o strade per fare acquisti, cioè non si proteggono. Proprio per questo esistono strumenti come la prevenzione sociale, che in un certo senso “costringono” le persone a proteggersi, senza per fortuna contare sulla loro tendenza naturale a farlo, o sul loro interesse individuale a farlo.

 

trevaini50Silvia Trevaini

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