Quando la musica parla di suicidio

“In pochi giorni si sono registrati tre casi di suicidio di minorenni nell’area di Milano. Ciò riporta l’attenzione su un fenomeno che è sempre affrontato con una modalità fallimentare, ovvero con una reazione preoccupata che poi svanisce per lasciar posto ad un vuoto di conclusioni.

Da una parte, di fronte al suicidio di un ragazzo, non si possono chiamare in causa significati “maturi” di questo gesto, come decisione scaturita da considerazioni definitive sulla propria vita o dal fallimento degli obiettivi principali. E qui sta il primo errore, perché esistono obiettivi e percezioni di realizzazione in ogni fascia di età, ancor prima che esista uno scopo finale della vita.

Il secondo errore è il contrario, cioè la ricerca di un “motivo” troppo preciso, il che porta soltanto a individuare dei motivi variabili tra l’estremamente comune (delusione sentimentale) e il più raro e più grave (abusi ripetuti). Non esce mai fuori il ruolo dello stato mentale, come funzione indipendente”, ci spiega il Dott. Matteo Pacini, medico chirurgo, Specialista in Psichiatria e docente di Medicina delle Dipendenze presso l’università di Pisa.

Sappiamo forse troppo poco del suicidio, ma soprattutto alcune fonti di informazione spontanea sono poco conosciute. Una è la musica (intesa come musica e testi), interesse centrale anche per le generazioni giovani, e per questi modalità di rispecchiamento ed espressione elettiva.

Molti autori o poeti, non solo di testi per la musica, hanno trattato il tema del suicidio, ma negli ultimi decenni si è sviluppato un sottogenere che mette al centro questo tipo di argomento, unitamente a quello della depressione, dei sentimenti negativi e del disagio di vivere.

Si tratta del cosiddetto “depressive suicidal”, un sottogenere del black metal, a sua volta sottogenere del metal. A questo si affiancano altri contributi sul versante di generi quali il gothic, il “funeral doom” e lo sludge-core. Una pletora di realtà musicali (migliaia e migliaia di progetti musicali tra quelli attivi e quelli chiusi) distribuiti in tutto il globo, con punte nei paesi del Nord Europa e in Russia, ma presenti anche in Africa e Asia. Sono 1099 i gruppi “suicidal”, cioè con il suicidio come tema portante della loro vena lirica, e oltre 900 quelle dallo stile “depressive”, e sul 600 quelle funeral doom, che cantano la mancanza di speranza. A dispetto di chi può ritenere che la “suicido-filia” sia una deviazione mentale del mondo ricco, il fenomeno è diffuso, e la misura in cui questi linguaggi si riproducono in maniera indipendente dall’etnia e dalla geografia. Le copertine sono spesso in bianco e nero, con sagome o effetti di appannamento o blurring, oppure pose fotografiche provocatorie di contesti o tipi di suicidio, con un alone o di compiacimento o di sarcasmo. I nomi dei gruppi spaziano da “Mondo freddo” al sarcastico “Happy days” o “Lifelover”, a “Ipotermia”, “Tomba dimenticata”, “Euforia suicida”, etc e la seriosità di alcuni lavori è autenticamente disturbante come può esserlo un’opera di stampo veristico piuttosto che “romantico”.

Alcuni studi riportano ad esempio che esiste un tasso maggiore di pensieri riguardanti il suicidio tra i fans del metal, ma non con i suicidi a termine, tranne che in un singolo campione di soggetti sotto i 25 anni (abbonati a riviste del settore), così come una corrispondenza maggiore con l’autolesionismo, nella maggior parte dei casi come tagli auto-inflitti. Non pochi riferiscono chiaramente di prodursi queste lesioni per indurre uno stato mentale di calma, di distacco dalla realtà o per bloccare sentimenti negativi: non quindi come sfogo semplice, ma come sfogo compensatorio. L’identificazione con la sottocultura “gotica” (che comprende una serie di sottogeneri più vasti) correla con sia con l’abitudine all’autolesionismo, sia con il rischio di sviluppare depressione negli anni dell’adolescenza. Leggere ciò come un rapporto causa-effetto è limitativo, oltre a non essere supportato da particolari dati. Quello che invece appare interessante è sapere che esiste una correlazione tra il gusto per la rappresentazione del suicidio e della depressione a livello artistico (dalla copertina al testo alla musica), e addirittura alla coltivazione dello stesso come una sorta di “valore”, che apparentemente punta alla morte, ma che di fatto parla della vita. I sentimenti negativi e distruttivi vanno innanzitutto intesi come espressione di qualcosa di vivo, per cui sarebbe errato scambiarli per una emanazione di un richiamo di morte. Anche se il suicidio è uno dei comportamenti che può alla fine scaturire da un malessere e da una distonia con la vita, in realtà esso è un’eccezione rispetto alla tendenza predominante di cercare un punto di contatto e di motivazione verso la vita.

Addirittura c’è chi sfotte questo tipo di artisti, così come capita anche per i famosi poeti o filosofi pessimisti, dicendo che è abbastanza ridicolo sfornare dischi per anni parlando di quanto la vita sia invivibile e glorificando la morte, perché se lo pensassero fino in fondo avrebbero smesso subito di vivere. Ma questa osservazione inevitabile è l’ovvio che va poi archiviato.

Conoscere il linguaggio di chi riflette, fantastica sul suicidio e sulla morte, e magari ne fa anche un feticismo, significa poter stabilire un ponte di comunicazione. Sul piano clinico, psichiatrico, tutto il linguaggio negativo di questa musica richiama quello che si definisce “stato misto dell’umore”, ovvero uno stato in cui la visione è depressiva, ma allo stesso tempo definitiva e grandiosa; i sentimenti sono negativi, ma assoluti e intrisi d’orgoglio; e soprattutto con una vena di comunicazione, magari rabbiosa e odiosa, verso il mondo, il prossimo e il destino, visti come il nulla che non è in ascolto.

Come forse non molti sanno, il rischio suicidario è dato non tanto dalla depressione in sé intesa come inibizione e rallentamento delle funzioni mentali, ma da una sorta di urgenza di uscita dal dolore, che rende quindi insopportabile improvvisamente ciò che magari dura da anni. In altre parole, quella pressione che spinge verso un atto “di cambiamento” estremo, non è tanto un cadere indietro verso l’annullamento di sé, quanto un esser rapiti da un’illusione di proiettarsi verso qualcosa di meglio (e di meno doloroso).

I pochi farmaci che sembrano garantire una protezione almeno statistica contro questo tipo di comportamenti non sono gli antidepressivi, peraltro, ma farmaci anti-impulsivi, o in grado di ripristinare uno stato di appagamento interiore.

Quindi, nello scoprire che una persona è affascinata o coinvolta in filoni culturali di tipo gotico, depressivo, dark, di metal “nero”, più che un rischio da evitare contrastando la cosa si può vedere un tipo di necessità espressiva che è interessante discutere, come base per migliorare la consapevolezza di sé e occasione magari per comunicare un disagio che può essere poi gestito a livello medico. Il tutto, senza entrare in conflitto culturale, e senza che questo abbia a che fare con la critica ai gusti culturali o musicali.

 

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trevaini50Silvia Trevaini

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