(Caso di Katharina, Freud)
Il disturbo da panico è altamente rappresentato nella popolazione generale, in percentuali che si aggirano intorno al 2-3%. Le donne sono più colpite rispetto agli uomini (2 a 1) e l’età di esordio si colloca fra i 15 e i 35 anni. Tuttavia, in percentuali inferiori il disturbo può esordire anche durante l’infanzia o nel soggetto anziano.
Il disturbo si caratterizza per il ripetersi di attacchi di panico, ossia episodi parossistici d’ansia che insorgono bruscamente, raggiungono l’intensità massima in pochi istanti e si esauriscono nell’arco di pochi minuti; raramente possono persistere più a lungo. Ce ne parla oggi la dottoressa Cristina Toni del Centro Medico Visconti di Modrone di Milano.
La sintomatologia delle crisi può essere molto diversa da caso a caso ed anche nella stessa persona in tempi diversi. Sul piano psicologico, il paziente esperisce un vissuto di intensa paura, spesso senza alcun motivo scatenante, durante il quale concomitano sensazioni di impotenza, di estremo disagio, di terrore, culminanti, spesso, nella paura di morire, di impazzire o di perdere il controllo sulle proprie azioni.
Le manifestazioni fisiche comprendono sintomi cardio-respiratori (palpitazioni, dolore al torace, sensazione di caldo o freddo, difficoltà a respirare, sensazione di soffocare), sensazione di svenire, di instabilità e di perdita dell’equilibrio, sintomi gastrointestinali (nausea, vomito, diarrea), urinari (aumento del bisogno di urinare) e neurologici (tremori, formicolii, cefalea).
Fenomeni come depersonalizzazione (sensazione di non riconoscere come propri il corpo o alcune parti di esso), derealizzazione (sensazione di non riconoscere il mondo esterno come reale, quasi come se lo si osservasse attraverso una coltre di nebbia o in un film), deja-vu, deja-vecu, ipersensibilità alla luce ed ai suoni sono presenti in circa un terzo dei soggetti.
Ben presto gli attacchi vengono ad accompagnarsi al timore che le crisi possano ripetersi: il soggetto vive allora in uno stato di allerta persistente. Questo particolare tipo di “ansia anticipatoria“, è diverso dagli attacchi di panico; dura più a lungo, anche per ore, e risulta estremamente invalidante.
Con l’intensificarsi degli attacchi di panico e per la tendenza ad associare le crisi con situazioni e luoghi specifici, si strutturano le cosiddette condotte di evitamento: evitando di rimanere soli, di allontanarsi da casa e sfuggendo situazioni nelle quali può risultare difficile essere soccorsi, gli attacchi di panico sono più tollerabili. Si parla di agorafobia quando le condotte di evitamento limitano in modo significativo le attività quotidiane ed il funzionamento sociale e lavorativo del soggetto.
In circa il 30% dei casi, dopo i primi attacchi, compare una fase di “polarizzazione ipocondriaca“, nel corso della quale è presente la convinzione di essere affetti da una malattia fisica ed il paziente si sottopone a numerosi accertamenti fisici ed esami che hanno un effetto rassicurante solo transitorio. I timori riguardano in genere la paura di una morte improvvisa per infarto o ictus. I soggetti spesso corrono al Pronto Soccorso, per la sensazione di essere sul punto di morire, e finiscono per consultare molti medici. D’altro lato, frequentemente temono gli effetti collaterali dei farmaci e riportano di essere allergici o di non sopportare molte medicine, tanto che è necessario cominciare le terapie con dosi basse, da aumentare con molta gradualità.
Come cause del disturbo intervengono fattori legati alla struttura personologica dell’individuo, fattori ambientali, genetici e biologici. In particolare, sembrano predisposti gli individui propensi ad allarmarsi per l’insorgenza di sintomi fisici e ad amplificare in modo peggiorativo la valenza di stimoli esterni. Fattori stressanti, quali conflittualità interpersonali, malattie e perdita di persone significative, precedono molto spesso l’esordio del disturbo. Ricerche biologiche hanno infine messo in risalto come fattori genetici e alterazioni funzionali di alcune aree del cervello, deputate al controllo e alla modulazione dell’ansia (sistema limbico e amigdala), svolgano un ruolo fondamentale nella genesi del disturbo.
Fortunatamente, oggi disponiamo di terapie che consentono un buon contenimento delle manifestazioni cliniche. Solitamente si preferisce iniziare con un trattamento farmacologico (i cosiddetti antidepressivi inibitori della ricaptazione della serotonina sono i farmaci di prima scelta) in grado di bloccare gli attacchi e ridurre progressivamente tutte le manifestazioni correlate. Gli ansiolitici (le cosiddette benzodiazepine) dovrebbero essere utilizzate solo al bisogno o per periodi limitati per il rischio di fenomeni di assuefazione e dipendenza. La psicoterapia cognitivo-comportamentale è indicata nelle forme in cui tendono a persistere un atteggiamento di allarme verso i sintomi fisici o comportamenti di evitamento fobico. Se le risposte ai trattamenti sono generalmente molto buone, è altrettanto vero che il disturbo tende ad avere un decorso ricorrente e può quindi ripresentarsi in diverse fasi della vita. In questi casi dovrà essere impostato un nuovo ciclo di terapia.
Videonews