Quel che si può dire nella pratica clinica, innanzitutto, è che la questione videogiochi non emerge spesso nelle storie dei pazienti adulti (che pure sono in parte cresciuti coi primi videogiochi, e comunque sono in parte utilizzatori dei videogiochi moderni). Di solito quindi sono genitori di adolescenti a protestare perché i figli dedicano troppo tempo a questo tipo di attività, dimostrando invece disinteresse per altre, sociali o più costruttive, e manifestano reazioni di rabbia e violenza se si impedisce loro di utilizzare i videogiochi.
Il principio per il quale una persona “esagera” o perde il controllo sul tempo e le risorse mentali dedicate ai videogiochi è teoricamente lo stesso di qualsiasi altro stimolo gratificante, ricreativo.
Gli effetti che un giocare anche controllato, ma abituale, può avere sul funzionamento mentale, è un capitolo a parte.
Si fanno spesso affermazioni troppo semplicistiche sul fatto che, ad esempio, i contenuti di un videogioco condizionino i comportamenti nella vita reale (che quelli violenti rendano violenti). La finzione di un videogioco, così come quella di un film, è elemento distintivo di quel tipo di divertimento. La capacità di lasciarsi coinvolgere non ha niente a che vedere con la tendenza a sovrapporre il piano reale con quello virtuale.
Ci sono certamente persone che “vivono” più nel gioco (in questo caso giochi sociali, o di realtà virtuale) e invece perdono colpi nella vita reale, ma questo va considerato come una manifestazione di un problema psichiatrico più generale (ad esempio un disturbo umorale) che qualcosa di “indotto”.
Ci sono poi un altro tipo di casi, ovvero quelle persone che sembrano isolarsi in un proprio mondo domestico, dominato dalla realtà virtuale, inclusi i videogiochi. Alcuni fino a scomparire dalla vita sociale, non tanto perché “posseduti” dai videogiochi ma per un senso di spavento e inadeguatezza rispetto all’ambiente, che lascia spazio solo a attività solitarie.
Una rabbia ingiustificata o esplosiva nel momento in cui si impedisce alla persona di giocare può essere indicativa di uno stato mentale già alterato, nel quale il videogioco rappresenta anzi un elemento equilibratore, ma allo stesso tempo segnala l’impossibilità di trovare l’equilibrio in altri tipi di contesti. In alcuni casi invece la rabbia esplode “durante” il gioco, quando ad esempio si interrompe la persona, o si spegne il computer. La rabbia può esser legata al fastidio contro chi ha interrotto, a maggior ragione se lo ha fatto perché disapprova il videogioco, oppure perché si è interrotta una sfida in cui la persona stava insistendo in maniera frenetica. In quest’ultimo caso si è ipotizzato che certi videogiochi possano innescare dei meccanismi ripetitivi e di legame in cui non è così facile interrompere il gioco (specie se si sta perdendo).
Dipendere da un videogioco non significa star peggio se non si può utilizzarlo. Questo, come dicevamo, può essere indicativo di una certa povertà o scarsa varietà di fonti di divertimento e gratificazione, ma non necessariamente di qualcosa che non va nel giocare in sé.
Poco ancora si sa sui fattori che condizionano il legame ad un gioco: potrebbe trattarsi di fattori legati alla rapidità del gioco, così come si verifica nei giochi d’azzardo, così come nei colori, nelle figure e nei suoni, o il tipo di azioni che si compiono nel gioco.
Può capitare di giocare anche oltre quanto si era preventivato, o fino a sentire male agli occhi, ai muscoli e alle articolazioni per la posizione mantenuta a lungo, o fino a diventare di cattivo umore perché non si vince abbastanza o sempre. Anche questo tipo di esagerazioni, se si auto-limita, non è da considerarsi indicativa di nulla. Il caso è diverso se la persona cerca nel videogioco una gratificazione senza ottenerla, ma nonostante ciò vi dedica energie crescenti, scontento del risultato e della perdita di tempo, incluse risorse ed equilibrio mentale che questo gli provoca.
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