Scegliere un regime alimentare non condiviso dalla maggior parte delle persone, senza un sottostante problema di salute che obblighi a farlo, espone inevitabilmente all’attenzione degli altri.
Condivido che l’atteggiamento migliore sia quello di non cercare di fare proseliti: per quanto la soddisfazione conseguente alla nostra scelta possa tentarci a parlarne e consigliarla (spesso ben oltre il ragionevole, ammettiamolo!), rischiamo di scontrarci con chi difenderà comunque la sua posizione “di comodo” e, agli occhi del quale, appariremmo come coloro che vogliono vendersi come “migliori”, innescando una vera e propria disputa.
Ritengo che il disagio percepito nei confronti di questa forma di anticonformismo, derivi in larga misura dal fatto che l’interlocutore avverte ad un qualche livello la sensatezza delle argomentazioni di un vegetariano, ma non è disposto ad uscire dalla sua zona di confort e a mettere in discussione tutto quanto gli appare come “normale”.
In proposito ricordo una vignetta che ritraeva un cannibale mangiare un esploratore nonostante quest’ultimo gli avesse dato ottime ragioni sull’inutilità di quel gesto, semplicemente perché “la sua tribù si era sempre comportata a quel modo”.
In effetti il comportamento condiviso dalla “nostra tribù”, parenti ed amici, gioca un ruolo fondamentale nelle decisioni che prendiamo in ogni ambito della nostra Vita, perché temiamo sempre e comunque di non essere compresi o accettati ed, in ultima istanza, di essere abbandonati.
Indubbiamente, da qualche anno, l’apertura dei media al mondo vegetariano rende questa scelta più agevole, in quanto sostenuta dall’energia collettiva di un numero di persone sempre crescente – una sorta di volano che si è innescato e che oggi comincia ad essere sostenuto anche dalla medicina ufficiale.
Rimane comunque oggettivo che una qualsiasi variazione del più comune atteggiamento alimentare onnivoro ci collochi in una minoranza, con tutto quanto ne consegue.
Purtroppo infatti, man mano che ci spingiamo ben oltre quanto può essere compreso (e quindi accettato) da chi non ha fatto un’esperienza personale, le reazioni altrui non si limitano più al pettegolezzo, ma ci conducono a confrontarci con persone che decidono di vestire i panni del “Salvatore”, facendosi carico della missione di “ricondurci all’ortodossia alimentare” (calpestando, ovviamente per il nostro bene, il nostro libero arbitrio).
So molto bene di cosa sto parlando perché, quando mi sono avventurato oltre i confini del fruttarismo, fino negli sconosciuti territori del respirarismo, sono stato trattato come un malato, un anoressico che non si rendeva conto del suo stato di autoprivazione. In effetti, il termine “anoressico” veniva facilmente preso in prestito ad uso e consumo dell’interlocutore (all’immaginazione del quale suonava particolarmente appropriato), anche se non manifestavo alcuna caratteristica della patologia, al di fuori dell’indiscutibile perdita di peso.
Di fatto parenti ed amici stavano semplicemente soddisfacendo il loro umano bisogno di ricondurre ciò che vedevano nell’ambito degli schemi a loro noti e che quindi erano in grado di comprendere.
La regola comportamentale rimane perciò quella di evitare di pubblicizzare le proprie scelte alimentari e spiegarle, con parole che non scuotano l’altrui Sistema di Credenze, solo se si è espressamente invitati a farlo.
Lasciate insomma che sia il vostro miglior sorriso a parlare di quello che mangiate, che gli altri avvertano il Benessere di cui godete e che sia questo a spingerli ad interrogarvi.
Un chiacchierata su queste basi sarà sicuramente di reciproco beneficio!
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