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Neuroni Specchio: implicazioni per la psicoterapia

Quando vediamo qualcuno fare qualcosa, a livello di attivazione neuronale è come se fossimo noi a farla. O meglio, ci predisponiamo a farla, quindi possiamo avvicinarci a comprendere ciò che gli altri percepiscono nel farla.
Matteo Rizzato e Davide Donelli, lo sono il tuo specchio, 2011

Negli ultimi decenni le crescenti scoperte nel campo delle neuroscienze hanno permesso ai ricercatori di applicare più agevolmente i dati all’ambito clinico e di renderli disponibili per implementare nuove strategie terapeutiche. Parallelamente, su un piano epistemologico, si è assistito a una forte spinta verso il superamento dei riduzionismi sul funzionamento mentale (psicologico e biologico) favorendo il dialogo tra studiosi provenienti da ambiti diversi. Il risultato è una progressiva attitudine a investire in ricerche multidisciplinari in cui viene stimolato il confronto, il dialogo e, talora, una vera e propria integrazione di elementi provenienti da paradigmi teorici diversi. Ne parliamo con le Dott.sse Alessandra Del Carlo e Cristina Toni, specialiste in Psichiatria del Centro Medico Visconti di Modrone.

In questo ambito, un contribuito prolifico è stato fornito dalla ricerca sui “neuroni specchio” (mirror neurons), una particolare tipologia di neuroni scoperti all’inizio degli anni novanta da ricercatori dell’Istituto di Fisiologia dell’Università di Parma. La peculiarità di questi neuroni, originariamente identificati nella corteccia premotoria dei macachi, è di attivarsi quando l’animale esegue azioni finalizzate a uno scopo (ad esempio afferrare un oggetto), ma anche quando l’animale osserva le medesime azioni eseguite da altri membri della propria specie. Tali neuroni, chiamati anche visuo-motori, svolgerebbero pertanto una duplice funzione percettivo/motoria, rappresentando una prova a confutazione della concezione che prevede una netta separazione funzionale tra neuroni di tipo motorio e sensitivo (deputati alla percezione degli stimoli).

In seguito, attraverso tecniche di neurovisualizzazione cerebrale (PET e FMRI), è stato possibile evidenziare che il sistema specchio è presente anche nell’uomo nella parte inferiore della corteccia parietale, in larga parte della corteccia premotoria e nell’area del linguaggio di Broca. Anche nell’uomo la semplice osservazione di un’azione effettuata da un’altra persona induce una risposta di attivazione del circuito nervoso deputato a determinarne l’esecuzione, come a innescarne una sorta di “automatica simulazione” nel cervello dell’osservatore.

Gli autori hanno ipotizzato che il fenomeno del rispecchiamento non sarebbe altro che un meccanismo evolutivamente antico volto a garantire la funzione di “riconoscimento e comprensione implicita” di quell’atto. Oltre al riconoscimento delle azioni eseguite da altri, tale meccanismo è stato chiamato in causa nella comprensione dell’intenzionalità degli altri  e nella più ampia capacità di apprendere attraverso l’imitazione.

Esperimenti successivi hanno evidenziato che anche osservare un viso altrui che esprime un’emozione (tristezza, gioia, disgusto, rabbia) stimola nell’osservatore i medesimi centri cerebrali che si attivano quando egli stesso presenta una reazione emotiva analoga, suggerendo un ruolo di questi neuroni anche nel riconoscimento emozionale. Parimenti, le stesse aree cerebrali che si attivano quando proviamo dolore o una sensazione tattile, si attivano anche quando vediamo altri esperire le stesse sensazioni.

Gli individui, pertanto, avrebbero una capacità innata di riconoscere, comprendere, assimilare e imitare non solo le azioni ma anche le emozioni e le sensazioni, e più in generale di “sintonizzarsi” con gli stati mentali altrui. Gli autori, in particolare, hanno denominato “simulazione incarnata” il meccanismo che ne starebbe alla base: in modo economicamente vantaggioso il cervello “semplicemente” riutilizzerebbe le stesse rappresentazioni neurali che presiedono alle azioni, emozioni e sensazioni per riconoscerle negli altri.

Trattandosi di una riproduzione automatica e involontaria degli stati mentali (e corporei come il dolore) è facile comprendere come tale fenomeno possa essere chiamato in causa come uno tra i correlati neurofisiologici che contribuiscono alle più complesse funzioni dell’intersoggettività, della reciprocità e della comprensione empatica.

Queste ultime rientrano nella più articolata dimensione sociale della mente umana da sempre oggetto di speculazione, studio e teorizzazione da parte di autori appartenenti a diversi paradigmi teorici, talora anche molto distanti tra loro (scienze mediche, sociali, psicologiche, filosofiche, antropologiche,..).

Confinando all’ambito delle scienze psicologiche e senza entrare, per motivi di spazio, nei dettagli, diversi autori hanno enfatizzato come le relazioni interpersonali influenzino le varie fasi della parabola esistenziale degli individui, studiando fenomeni che, qualora vagliati attraverso solide collaborazioni interdisciplinari, potrebbero essere finalmente ancorati a un modello neurologicamente validato di funzionamento della mente. Comprendere la mente, nel suo funzionamento basale, psicofisiologico e/o psicopatologico permetterebbe inoltre di validare, confutare o sviluppare strategie terapeutiche e di testarne l’efficacia sul campo dei processi neurobiologici.

Un’evoluzione della ricerca in questo senso sarebbe particolarmente auspicabile per la pratica psicoterapica: quest’ultima, infatti, della ricchezza delle sue molteplici ma frammentate e, talora, contraddittorie teorie e tecniche (per lo più riflesso di altrettanti modelli di funzionamento della mente) ha risentito in termini penalizzanti, fino a dare l’impressione di un amalgama difficile da sistematizzare e da validare. Studi multidisciplinari potrebbero essere decisivi per supportare, o confutare, le diverse teorie psicologiche sul funzionamento mentale, così come per monitorare e interpretare i cambiamenti indotti dalle relative tecniche e pratiche a livello neurobiologico. In prospettiva, infine, il corpo di conoscenze ottenuto potrebbe facilitare un più corretto accoppiamento tra finalità terapeutiche e tecniche di intervento, aumentando la specificità e la personalizzazione degli interventi.

Procedendo verso aspetti più pragmatici, proviamo a integrare alcuni dei concetti sovraesposti in un esempio che aiuti a chiarirne le ripercussioni cliniche: chi di noi non vorrebbe, una volta deciso di sottoporsi a una psicoterapia, poter contare su un terapeuta empatico con il quale instaurare una buona relazione? Probabilmente la maggior parte delle persone ritiene che una relazione improntata all’accoglimento e alla comprensione sia un prerequisito fondamentale per ottenere un buon risultato terapeutico, indipendentemente dalle tecniche specifiche utilizzate. L’argomento sotteso, ovvero quanto e/o come le capacità empatiche dei terapeuti contribuiscano alla costituzione di una efficace relazione e al processo di cura, è, tuttavia, uno tra i più complessi e dibattuti.

A titolo di ipotesi, poniamo che la capacità del terapeuta di empatizzare con il paziente, necessaria per lo sviluppo di una buona alleanza terapeutica, implichi il corretto attivarsi nel terapeuta di uno, o più, dei fisiologici meccanismi di rispecchiamento. Sempre in ipotesi, potremmo pensare che la simulazione dello stato mentale da parte del terapeuta, filtrata dalla sua competenza emotiva e integrata dall’analisi tecnica, si estrinsechi in una risposta empatica, congruente allo stato mentale iniziale del paziente ma già modulata e, in parte, trasformata dal terapeuta. L’empatia del terapeuta quindi, a differenza di un semplice contagio emotivo, restituirebbe al paziente qualcosa di complementare perché rielaborato da un tecnico. A sua volta il profilo di attivazione dei neuroni specchio del paziente automaticamente “simulerebbe” la risposta appropriata del terapeuta. Nel tempo il paziente imparerebbe a riconoscere le varianti da questo espresse in termini di modulazione e a utilizzarle per chiarire, tollerare e articolare i propri vissuti emotivi. Inoltre, la ripetizione di queste esperienze di comprensione/modulazione empatica potrebbe servire da funzione regolatrice, come se il paziente vedendo rispecchiata nel terapeuta una versione meglio gestibile di quello che lui prova potesse a sua volta imparare a simularla e, in seguito, a farla propria.

Ovviamente questo modello richiede ulteriori verifiche sperimentali. Tuttavia, questa ipotesi sembrerebbe in continuità con i principi su cui si fondano specifiche tecniche psicoterapeutiche che sfruttano l’empatia dei terapeuti e le capacità riflessive dei pazienti.

Recentemente, inoltre, sono state proposte tecniche che utilizzano la videoregistrazione delle reazioni emotive del paziente per favorirne, da parte del paziente stesso, un corretto riconoscimento da usarsi da sole o in combinazione con altre. Tali tecniche appaiono supportate da ricerche di neurovisualizzazione che dimostrerebbero che il sistema dei neuroni specchio si attiva in modo più intenso osservando il proprio volto rispetto a quello altrui.

Parimenti, negli ultimi anni grossa attenzione al corpus di conoscenze sui neuroni specchio è stata mostrata da coloro che si occupano di terapia di gruppo, allo scopo di perfezionare le strategie terapeutiche basate su modalità interattive.

Certamente, da un punto di vista della applicazione pratica, si stanno muovendo solamente i primi passi e, ancora, si attendono i dati relativi all’efficacia e alla praticabilità di tali tecniche.

E’ tuttavia evidente che una nuova prospettiva si sia aperta: quella in cui prevale il desiderio di ricercatori di diverse estrazioni di collaborare affinché le scoperte neuroscientifiche si applichino alla pratica psicoterapica, superando la tendenza a spiegare, e a intervenire, sulla complessità psichica attraverso forzosi riduzionismi.

 

Silvia Trevaini

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