“…non è l’analisi dei fattori di rischio genetici a rappresentare la promessa più immediata per la salute psichica del genere umano, quanto l’applicazione delle informazioni genetiche per un uso più sicuro ed efficace dei farmaci”
Caplan, Science 2011
Negli ultimi venti anni la ricerca genetica ha fatto notevoli progressi in medicina con la cosiddetta “rivoluzione genomica”. Grazie alla definizione della sequenza dei geni nel genere umano, sono stati implementati studi cosiddetti di “associazione genoma-wide”, volti a confrontare i geni di soggetti sani con quelli di soggetti affetti da una determinata malattia per evidenziare eventuali differenze da mettere in relazione con la patologia in esame. “Il primo successo di questo tipo di ricerche si ebbe nel 2005, quando si identificò una variante genetica responsabile della degenerazione maculare senile. Negli anni successivi numerose altre malattie sono state messe in relazione con variazioni genetiche nella popolazione”, ci spiega la Dottoressa Cristina Toni , specialista psichiatra del Centro Medico Visconti di Modrone.
In psichiatria, le informazioni derivate da questo tipo di indagini purtroppo non hanno chiarito l’origine e lo sviluppo dei vari disturbi, come sottolineato da Caplan, un famoso ricercatore statunitense. Infatti, le stesse variazioni genetiche sono state spesso ritrovate nei disturbi dell’umore, nei disturbi d’ansia e nella schizofrenia.
Al contrario, nell’ambito della farmacogenetica i risultati sono stati estremamente promettenti, permettendo di individuare alcuni assetti genetici che risponderebbero in misura diversa ad un determinato farmaco o che sembrerebbero più suscettibili agli effetti collaterali di una terapia.
La conoscenza delle caratteristiche genetiche di un soggetto correlate al metabolismo di un farmaco, o alla probabilità di risposta o di effetti indesiderati del medesimo, aumenta la possibilità di personalizzare un trattamento.
A prescindere dalle informazioni derivanti dalla farmacogenomica, le conoscenze sull’efficacia e sicurezza di impiego di un farmaco derivano dai cosiddetti studi clinici controllati. Negli studi controllati si seleziona una popolazione affetta da un determinato disturbo e si va quindi a determinare l’efficacia di un farmaco a confronto con il placebo per quel determinato disturbo. I dati che si ottengono sono valori medi di efficacia e il farmaco, se efficace, lo sarà per un 70% circa della popolazione in esame. Il rimanente 30% è costituito da soggetti che abbandonano la sperimentazione per effetti collaterali e da soggetti resistenti a quel determinato prodotto. Si delineano così due fenomeni cruciali per la farmacoterapia: l’ipersensibilità e la resistenza. Molti soggetti si presentano alle visite sostenendo di essere “allergici” ad una grande quantità di farmaci; anche poche gocce scatenano reazioni fastidiose e intollerabili, quali aumento dell’ansia, fastidi fisici localizzati un po’ dappertutto, pruriti, dolori, nausea, diarrea e molti altri disagi. Nel secolo scorso si riteneva che queste lamentele fossero eccessive, tipiche di una struttura “nevrotica” e fossero un modo per manipolare il rapporto con il medico.
All’opposto, ci sono individui che tollerano anche dosi importanti di un farmaco, con pochissimi effetti collaterali; purtroppo, al tempo stesso non mostrano nessun beneficio dalla terapia.
Con la farmacogenetica si sono potuti individuare diversi assetti costituzionali che rendono ragione di questa differente sensibilità ai farmaci. Alcuni individui hanno variazioni genetiche rispetto alla maggior parte della popolazione in funzione delle quali metabolizzano un farmaco molto velocemente o al contrario molto lentamente. I primi, definiti rapidi metabolizzatori, sarebbero quindi poco sensibili o resistenti ad alcuni farmaci che vengono eliminati troppo velocemente, impedendo quindi che si manifesti l’effetto terapeutico. Gli altri, all’opposto, hanno un metabolismo molto lento (lenti metabolizzatori) con la conseguenza che i farmaci tendono ad accumularsi, anche quando assunti a basse dosi, provocando effetti collaterali e reazioni fastidiose che talora rendono difficile la prosecuzione del trattamento.
Quindi i dati sull’efficacia di un farmaco derivati dagli studi controllati danno informazioni sulla praticabilità di un trattamento nella maggior parte della popolazione, non estensibili però ai rapidi o lenti metabolizzatori.
Le conoscenze acquisite con la farmacogenetica ci consentono oggi di “personalizzare” l’intervento terapeutico. Con alcuni kit di facile impiego, ma purtroppo non ancora diffusi nella pratica clinica, è possibile sapere come un individuo metabolizza farmaci diversi e qual è la possibilità che risponda positivamente ad una terapia o che sviluppi reazioni avverse.
Ovviamente la scelta di un farmaco e la gestione di una terapia non si incentrano unicamente sui dati di efficacia degli studi controllati e sulla farmacogenetica.
Il clinico, infatti, deve fare un’analisi dei sintomi lamentati, del decorso del disturbo nella storia del paziente, della eventuale presenza di altri disturbi internistici o neurologici concomitanti e, sulla base delle informazioni raccolte, definire il sottotipo del disturbo per cui è richiesto l’intervento. In base al sottotipo individuato verrà scelto il farmaco adeguato, in base ai dati di efficacia e sicurezza di impiego disponibili dagli studi farmacologici.
Uno stesso antidepressivo, per esempio, non può essere utilizzato per tutti i sottotipi di depressione: a seconda dell’età, della presenza di sintomi talora anche opposti, in soggetti diversi, quali agitazione o rallentamento, insonnia o ipersonnia, riduzione o aumento dell’appetito, idee di morte o paura di morire, si dovrà scegliere il farmaco più adatto.
L’impiego dei test farmacogenetici viene riservato e suggerito per i casi di ipersensibilità o resistenza ad un prodotto. Purtroppo, ad oggi pochi sono i centri attrezzati per questi test; in alternativa i pazienti potrebbero acquistare kit per la definizione del loro assetto farmacogenetico, ad un costo però non alla portata di tutti.
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