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Covid-19, chi è stato meglio con l’isolamento

Nel corso della quarantena, e anche come scia, sono stati previsti peggioramenti nella salute mentale generale. L’interpretazione di questo ipotetico peggioramenti mi ha lasciato da subito perplesso. Cioè, io non ho pensato che la quarantena facesse drasticamente peggiorare le malattie mentali, piuttosto la qualità di vita di una parte delle persone. In generale, chi ha bisogno di prestazioni sanitarie può trovarsi in difficoltà perché è più difficile farsi visitare, procurarsi le medicine, avere accesso all’ambulatorio del medico curante. Ne parliamo don il Dottor Matteo Pacini, specialista in Psichiatria del centro Medico Visconti di Modrone.

Dott. Matteo Pacini

“Sulla quarantena, ho avuto invece un pensiero contrario. Forse è un’occasione per capire meglio cosa l’opinione pubblica si immagina di alcune diffuse malattie psichiatriche, perché temo che ci siano ancora dei grossi equivoci. Prendiamo la depressione. La depressione propriamente detta è quella situazione in cui la persona soffre al pensiero di dover tenere dietro ai propri impegni, doveri, ed è addirittura spaventata da incombenze comuni, scadenze, perché li legge come presagi negativi, come segni di qualcosa che forse ha sbagliato, come pericoli che si avvicinano inesorabilmente. Non cerca contatti con gli altri, preferisce temporaneamente evitarli. Non vuole che gli si chieda come sta, cosa fa, cosa farà e che programmi ha per l’Estate. Magari riesce a parlare di questioni tecniche, a tenere anche una lezione o a esprimere un parere su un argomento che lo entusiasma, ma lo fa in uno sprazzo che dura poco, per correre poi a chiudersi in un isolamento in cui almeno si sente introvabile, come un ladro dentro un tombino.

Sapere che il mondo fuori è fermo, che forse non c’è più, che comunque rimarrà così a lungo, con problemi, lentezze, assenza di prospettive, può far sentire meglio un depresso. Non deve andare al lavoro, può farlo magari senza doversi spostare e interagire faccia a faccia. Non deve fare vita sociale, perché non si può. E, guardando fuori dalla finestra, non vede gli altri che iniziano la giornata andando al bar o salutandosi per strada, il che lo rassicura.

Non stiamo parlando del fatto che così il depresso stia bene e possa vivere sereno. Semplicemente, se per caso gli capita di vivere una quarantena durante una fase depressiva, non è per niente detto che ne soffra, e anzi capita che lo viva come un sollievo relativo.

È  la stessa cosa che accade quando i familiari o gli amici del depresso lo incitano o lo stimolano all’azione. Si stressa, si sente in colpa, si vergogna, e magari non si esprime volentieri, perché non vuole sentirsi dire che “dovrebbe fare” o che “gli farebbe bene”. Se è costretto a forzarsi a far vita sociale, può avere sentimenti di disperazione, cercare di andar via, avere reazioni impulsive come se lo si stesse torturando. Stupisce che molti opuscoletti o vademecum per aiutare i pazienti depressi ancora oggi puntino sulla modificazione dello stile di vita, come se la depressione fosse il risultato di uno stile di vita (scelto per inerzia o non si sa per quale motivo). Può darsi che al depresso faccia bene fare esercizio fisico, ad esempio, anzi parrebbe di sì, ma un conto è come cura, altro è nella vita reale di tutti i giorni. In quest’ultima, che il depresso vada in palestra o si faccia mezz’ora di corsa al mattino è quanto di meno verosimile esista. Lo potrebbe fare solo come sforzo terapeutico, prescritto dal medico e in un contesto di cura. Ma come consiglio, svago, o peggio per sentirsi più normale, non attacca.

I depressi cronici, che hanno un vita adattata ad una dimensione di solitudine e malinconia, con pensieri negativi che poi sono in parte “smentiti” dalle attività che hanno o dal fatto che risultano persone anche piacevoli nel parlarci, anch’essi possono riferire un sollievo nella quarantena. Si sentono meno assediati dal mondo, più liberi di non fare, di non desiderare, di non sperare in niente di diverso. Perché tutto è più fermo.

Quindi, se è vero che durante il lockdown duro non ho notato sostanziali scompensi, qualche movimento c’è stato invece alla riapertura. Non soltanto un problema di riadattamento ai ritmi consueti, quanto proprio un disagio.

Se non tutto il male viene per nuocere, questo esempio può servire in futuro a non attribuire così tanta importanza ai fattori esterni come determinanti, nel bene e nel male, della condizione mentale specifica della depressione. E di concentrarsi invece sul riconoscimento dei segni specifici, per poi curare la persona con gli strumenti dedicati, e non cercando di forzarlo dentro i moduli della normalità in cui si è ammalato”.

Silvia Trevaini

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