Un mix tra attrito da perdita di cartilagine e la presenza di liquido infiammatorio che mette in tensione la capsula articolare provoca un atteggiamento antalgico in difesa (in lieve flessione e extrarotazione) dell’arto e la limitazione funzionale con zoppia. Arrivato a questa situazione, la protesi all’anca spesso rimane l’unica possibilità ragionevole di cura. Ne parliamo con il Dottor Florian Fischer, specialista in ortopedia del Centro Medico Visconti di Modrone.
Mentre i primissimi impianti erano segnati da un alto tasso di fallimenti precoci, gli studi decennali per quanto riguarda i materiali protesici, loro ancoraggio nell’osso ospite, la tribologia o la tecnica chirurgica hanno reso la protesi anca un intervento affidabile e capace di ridare al paziente una vita attiva senza dolore con una sopravvivenza dell’impianto oltre i 90% dopo 15 anni – sappiamo quindi che più del 90% delle protesi messe 15 anni fa oggi sono ancora ben funzionanti e siamo convinti che gli impianti moderni che usiamo oggi potranno durare ancora più a lungo.
Anche l’accesso chirurgico, denominato da dove si esegue l’incisione alla coscia per mettere in opera l’impianto (posteriore, laterale, anterolaterale e anteriore) ha la sua importanza nell’intervento di protesi d’anca. Quasi tutti gli accessi noti hanno subito la trasformazione da accesso convenzionale a quello mininvasivo con l’obiettivo comune di ledere meno tessuti possibile durante l’esecuzione dell’atto chirurgico per garantire infine ai pazienti ridotti rischi e un recupero funzionale veloce.
L’intervento di protesi all’anca mediante via anteriore inguinale può essere applicato con ottimi risultati in più dell’80% dei pazienti, salvo casi particolari o complessi dove tuttora le vie tradizionali garantiscono una validissima alternativa a questo approccio moderno.
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