Quando si parla di dipendenze, si dà per scontato che significhi un uso abituale di quantità consistenti, o un comportamento abituale che si mette in atto spesso e senza facilità a rinunciarvi.
Le cose non stanno così. La difficoltà a rinunciare a qualcosa non c’entra niente, così come c’entra fino a un certo punto la “quantità” e l’abitudine, ci spiega il Dott. Matteo Pacini, specialista psichiatra del Centro Medico Visconti di Modrone.
Altri pensano che, siccome qualcosa è tossico, chi ne fa uso abituale sia evidentemente uno che è dipendente, altrimenti il senno gli direbbe di smettere, e ci riuscirebbe con una certa dose di sforzo magari. Neanche questo è vero, perché si dovrebbe pensare che i comportamenti utili o piacevoli non siano spesso anche dotati di una certa tossicità, e che le persone scelgono prima secondo il piacere e la necessità di stimolare certe funzioni, e solo poi secondo il rischio, a meno che questo non sia davvero imminente o spaventoso.
Il fumo di tabacco è molto diffuso, ma quasi nessuno si pone il problema, quando decide di smettere, di stabilire se ha una dipendenza o no. Questo invece condiziona sia la scelta del modo di affrontare il distacco da fumo, sia la definizione e la gestione di eventuali ricadute. In più, pare che siano concepibili solo metodi per “smettere”, mentre c’è poco interesse nel mettere a punto metodi affidabili per ridurre, nonostante questo sia ugualmente importante. Magari si tratta dello stesso tipo di metodi, che quando funzionano benissimo portano a smettere di fumare, se funzionano meno peggio permettono solo di ridurre.
Essere dipendenti significa, in due parole, voler smettere di fumare per sé, per una propria intenzione rispetto al proprio interesse o piacere personale, ma non riuscirci. Chi è dipendente riesce a fare una cosa, e cioè a interrompere, a “smettere”. Non riesce a non riprendere, e non riesce a controllare. Fuma in un solo modo, e cioè come capita, tendenzialmente tanto, mentre non è in grado di fumare come preferirebbe, o come gli conviene. Se gli conviene o desidera non fumare per niente, non è in grado di realizzare questo suo obiettivo.
La ragione è che la spinta a fumare non è più filtrata da una serie di meccanismi, o circuiti, parlando in termini neuronali, ma è automatica, e ha una soglia bassa, cioè si riproduce continuamente. Portare alla luce questa differenza è possibile anche con semplici “giochi” logici, come quello utilizzato nella scala di Fagerstrom, la principale usata per classificare i fumatori.
Alla domanda: “A quale sigaretta preferiresti rinunciare ?” si hanno due alternative, e cioè “la prima della giornata” oppure “una qualsiasi delle successive”. La risposta è priva di senso, perché ovviamente se uno rinunciasse alla prima sigaretta, la prima sarebbe la seconda virtualmente, ma tolto questo non cambia niente. Se l’istinto però fa rispondere “non la prima, la prima la voglio rinuncio ad un’altra a caso”, questo automatismo denota un desiderio svincolato dalla logica, che non ragiona più, ma ha solo una risposta, cioè quella che consente, anche solo virtualmente, di fumare di più, prima, senza ostacoli.
Una cosa curiosa di questa dipendenza è che alla cura ci sono arrivati prima i nicotinomani, o meglio gli scienziati hanno impostato uno studio, ma i risultati non erano attesi così come sono venuti. I metodi attualmente utili nel produrre un controllo del desiderio di fumare tabacco (non stiamo parlando di smettere, e non di smettere e basta, ma di recuperare il controllo), sono due: la vareniclina, un farmaco che agisce sull’interruttore della nicotina, e la sigaretta elettronica con nicotina. In teoria anche altri prodotti a base di nicotina a lento rilascio potrebbero ugualmente funzionare, ma non sono provati nel lungo termine. La maggior parte degli studi sulla dipendenza da nicotina è, piuttosto tristemente, limitata a inventare mille e uno metodi per smettere. Superflui per chi dipendente non è, inutili per chi lo è.
La sigaretta elettronica contiene nicotina, ma in maniera tale che sia difficile “estrarla”, il che le rende sicure. In teoria è quasi come se non ci fosse. In pratica no, almeno per i dipendenti: se si lasciano le persone fumare a piacimento la sigaretta elettronica, i livelli di nicotina nel sangue alla fine sono uguali a quelli ottenuti con il fumo di tabacco, con il vantaggio che viene meno la tossicità del fumo. E’ per questo che chi fuma la elettronica riesce a evitare il tabacco, in parte o del tutto. Il fumo non avviene però come da raccomandazione di base, ma questi fumatori fumano diverse sigarette al giorno, e con un fumo continuo, senza che nessuno glielo abbia insegnato. E’ il loro modo spontaneo per far salire la nicotina a livelli tali da tener buona la voglia.
La vareniclina fa lo stesso, cliccando sul recettore della nicotina, in parole povere. Il cervello non sente più smania di nicotina, senza essere sotto una “botta” di nicotina però, ma sotto un segnale costante che è percepito in maniera diversa, più neutra.
Nel dibattito sulla sigaretta elettronica questo discorso è andato un po’ perso, tutti paiono concentrarsi sui possibili rischi delle miscele, e molti dall’altro canto si stupiscono negativamente che le sigarette elettroniche sono praticamente “acqua fresca” in termini di nicotina. Il punto infatti non è che siano o meno preferibili alla sigaretta nell’uso voluttuario, ma se e come debbano essere usate nella dipendenza, che è tutta un’altra cosa.
Silvia Trevaini
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