Gastroduodenoscopia con biopsia dei villi intestinali: sì o no? È questo lo ‘strumento’ indispensabile per arrivare a una diagnosi certa di celiachia e per valutare la guarigione della mucosa intestinale dopo una dieta ‘terapeutica’ senza glutine? Ne parliamo con la Dott.ssa Carla Lertola, specialista in Scienza dell’Alimentazione del Centro Medico Visconti di Modrone.
Il dibattito, da sempre aperto, si è riacceso dopo la pubblicazione di uno studio americano della Mayo Clinic sulla rivista “Gastroenterology”. I risultati suggerirebbero infatti che questo tradizionale esame diagnostico, che si avvale anche della ricerca nel sangue di specifici anticorpi di malattia celiaca (anti-transglutaminasi IgA e anti-endomisio), potrebbe essere eventualmente sostituito da un nuovo test sempre sul sangue, sufficiente a definire da solo la presenza di malattia sia in fase di accertamento preliminare sia di follow-up sull’intestino dopo adeguata terapia.
Per diagnosticare la celiachia nei piccoli non si ricorre a biopsie, ma ora esiste il ‘sospetto’ (già sollevato da precedenti studi) che questa indicazione diagnostica possa essere applicata anche all’adulto. Come confermerebbero potenzialmente questo studio e il nuovo test. Il quale sembra avere una sensibilità elevatissima, dunque un margine di errore molto basso, nel distinguere i pazienti con celiachia da quelli sani.
Tutto va avvalorato da ulteriori studi di approfondimento che le attestino l’attendibilità scientifica. Sono convinta che sarebbe molto utile poter disporre di un marcatore di malattia, perché molti pazienti rifiutano la biopsia, in quanto è un esame invasivo.
È importante notare come la celiachia sia altamente presente nella popolazione italiana: 200 mila casi accertati secondo le ultime stime del Ministero della Salute, eppure ancora sottostimati. Pare infatti che a questo zoccolo duro si aggiungano una porzione di intolleranti al glutine ancora ignorata o nel limbo a causa di una sintomatologia banale e/o lieve tale da non essere associata o riconosciuta come celiachia cronica, e una fetta di popolazione “gluten sensitivity”, cioè di non veri celiaci, ma con una sensibilità al glutine che altera il rapporto con il grano e affini.
Ricordo tassativamente di non eliminare dalla dieta il glutine prima di sottoporsi a specifici test diagnostici poiché potrebbero dare dei risultati ‘falsi positivi’, ovvero fare rilevare la malattia laddove invece non esiste.
Ben vengano, dunque, i contributi scientifici che inducono a valutare trattamenti minimi, compreso quelli diagnostici, di massima efficacia per il paziente con un contenimento anche della spesa pubblica sanitaria. E questo test sembra andare proprio in questa direzione.
Silvia Trevaini
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