Anche se non ci piace, tutti facciamo l’esperienza della delusione, sin da piccoli. Per esempio le volte in cui ci siamo sentiti respinti da altri bambini, o incompresi dagli adulti. Oppure l’abbiamo vissuta come conseguenza della morte di un animale, o di qualcuno cui eravamo legati. Forse volevamo una famiglia diversa: con più amore, più attenzione, meno conflitti e più soldi per fare le cose. Crescendo, potremmo avere sofferto perché ci siamo sentiti diversi dagli altri, non all’altezza delle aspettative loro o nostre. E come se tutto questo non bastasse, la delusione ci segue anche al lavoro. Può presentarsi con un mancato avanzamento di carriera o, ancora più bruciante, con la promozione di qualcuno che non giudichiamo meritevole. Può arrivare con un conflitto inaspettato, o con la partenza di un collega, o di un capo, che stimiamo molto. Ci fa visita con cambiamenti di mansioni e transizioni aziendali, per non parlare dei mancati feedback e degli obiettivi non raggiunti. La delusione è una compagna cosi famigliare nelle nostre vite, anche in ambito professionale, che sarebbe davvero ingenuo pensare di respingerla, o fingere che non esista.
Quando ti trovi alle prese con la delusione, osserva come reagisce la tua mente, i pensieri e le immagini che produce. Pensi che il fatto che le cose non sono andate come ti aspettavi sia ingiusto? O ti consoli dicendoti che il meglio deve ancora arrivare? Magari una parte di te vuole affondare nella disperazione e nell’apatia, quasi a proteggersi dal dolore di ulteriori delusioni? Oppure, te la prendi con te stesso e inizi a rimuginare sui possibili errori commessi? Prova, per un momento, a lasciare andare tutte queste storie. E senti il corpo: che cosa senti, e dove ? È una sensazione di espansione o di contrazione? Apriti a questa esperienza, lasciando che si presenti così com’è, senza fuggire o criticarti. Il fatto che la provi, fa di te un essere umano
Forse te ne sei già accorto: aspettativa e delusione vanno a braccetto e l’esperienza dell’insistenza e quella della frustrazione sono due facce della stessa medaglia. In altre parole, ogni momento di delusione trova le sue origini nel nostro volere e pretendere che le cose vadano in un determinato modo. E se è vero che i nostri desideri possono fare da guida alle nostre scelte , conviene ogni tanto fermarci e chiederci: sino a che punto le urgenze che sentiamo, le nostre aspirazioni anche legittime, si trasformano in insistenza, in richiesta, persino in un senso che qualcosa ci è dovuto o che diamo per scontato, o in una misura del nostro valore.
Certamente, il solo pensare di lasciare un po’ andare la vita invece che controllarla, non ci piace per niente e di primo acchito ci crea disagio. In ogni momento si generano nella nostra mente aspettative su aspettative rispetto a come dovremmo sentirci, come dovremmo comportarci, che cosa dovrebbe accadere se facciamo questo o quell’altro, e come dovrebbero essere e cosa dovrebbero fare e dire le persone intorno a noi. Come sarebbe approcciare ogni momento con un cuore che semplicemente non sa cosa aspettarsi? Che non si attenda che le cose andranno bene, o che le cose andranno male, e che non guardi questo momento come se lo avesse già visto milioni di volte? Com’è guardare qualcuno che amiamo come se lo incontrassimo per la prima volta? E guardare il cielo prima ancora che la parola “cielo” compaia nella nostra mente? Come sarebbe incontrare la nostra vita con una sorta di ricettività senza filtro, e magari iniziare a scoprire la pace e la felicità che nascono dal liberare non solo noi stessi, ma anche gli altri dal peso delle nostre aspettative?
La maestra zen Charlotte Joko Beck era una grande fan della delusione. Diceva che “ se siamo così sfortunati che le cose vanno come vogliamo, e otteniamo ciò che desideriamo, allora continuiamo ad andare avanti nella nostra vita in uno stato di incoscienza. Ma se siamo fortunati, allora arriva la delusione. E se continuiamo ad incontrarla sino al punto che non sappiamo più da che parte girarci, allora possiamo iniziare una pratica autentica”.
Silvia Trevaini
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