Il Dottor Matteo Pacini, specialista Psichiatra presso il Centro Medico Visconti di Modrone, ci parla dell’aggressività e delle connotazioni afferenti.
Il tema dell’aggressività, specialmente quella cosiddetta “di genere”, cioè di un sesso nei confronti dell’altro, è di grande attualità. Secondo me però, a livello biologico, non ci si sta capendo molto, il che può essere un problema anche nel pensare poi a strategie di comunicazione, e di intervento.
Quando per esempio si parla di amori “criminali”, cioè di abusi perpetrati da persecutori, assassini, è d’obbligo rituale precisare che chi compie azioni del genere non ama, l’amore è tutt’altro, questo tipo di sentimenti di possesso, di rabbia, di odio non hanno a che vedere con l’amore, e così via.
Ovvio che una relazione fondata sulla persecuzione, le imposizioni, il danno fisico e la sopraffazione non abbia a che vedere col concetto di amore o di rapporto di coppia.
E’ invece sommario e sbrigativo dire che l’aggressività e l’appagamento stanno su due piani diversi, e che l’aggressività sia quindi una presenza estranea nei rapporti umani fondamentalmente positivi e costruttivi. Tanto è vero che quando assume proporzioni o meccanismi patologici, non parte “da zero”, ma utilizza meccanismi già attivi e operanti all’interno di un sistema fisiologico.
In ambienti isolati e in clima di impunità (carceri, scuole, comunità, sette, famiglie chiuse, caserme), una serie di sopraffazioni tendono a divenire non soltanto tollerate, ma regolamentate e anzi pretese, come parte della del piacere della sopraffazione stessa. In altri casi pratiche di tipo aggressivo e sadico sono organizzate e ammesse sotto un determinato manto ideologico (torture a fini politici, su base religiosa). Altre pratiche sono lasciate alla libera autodeterminazione, ma comunque si tende a negarne l’evidenza aggressiva fondamentale (tifo sportivo, odio campanilistico, odio politico).
Il piacere associato all’aggressività, e ottenibile attraverso pratiche aggressive, può essere visto in due modi. Da un lato l’aggressività serve ad ottenere certi risultati “oggettuali” (il cibo, la preda, l’accoppiamento), anche se nel nostro contesto è solo una strategia possibile. Quindi si può pensare che chi ottiene qualcosa aggressivamente sia condizionato a identificare la violenza e la sopraffazione con una promessa di piacere. Magari in questo perde il controllo, nel momento in cui il meccanismo non funziona più, e anziché passare ad altra strategia insiste in maniera crescente con livelli di violenza maggiori, come se dovesse “sfondare” la porta dell’appagamento in maniera distruttiva, e come se alla fine il successo dovesse coincidere con l’annientamento dell’altro.
D’altra parte però è più strano pensare che la lotta con un estraneo produca un “picco” di aspettativa piacevole che dura almeno 2 ore, durante e dopo la fase acuta dello scontro fisico. Ciò non significa che essere aggressivi sia piacevole in sé, ma che in generale si associa ad una aspettativa di piacere e successo. Per questo fermare chi è aggressivo non è così semplice: egli può vivere la cosa in maniera positiva, come se dovesse essere vicino a quello che vuole ottenere, il che spiega l’inutile aggressività di chi compie attentati solitari, si asserraglia e patteggia poi la fuga con la polizia, o tenta la guerra insieme ad un pungo di altre persone contro uno Stato intero. In natura infatti, l’aggressività, la sfida, prelude in genere ad una fase consumatoria, in cui il vincitore depreda il vinto, o conquista la preda, o si accaparra la parte migliore, o vince le resistenze di chi detiene qualcosa. Quando due persone entrano in conflitto, a partire da una relazione precedente, non è così strano che la linea di comportamento di chi perde terreno sia quella di aumentare la carica aggressiva, e che questo sia vissuto positivamente, come una posizione che prelude ad una riconquista del territorio. Se poi nella storia di una coppia si sono già verificati cicli di violenza-riconciliazione, c’è una memoria razionale del piacere oltre all’inclinazione istintiva: chi agisce in maniera aggressiva sente di poter vincere e sa che ha già vinto.
Anche il fatto di comportarsi in maniera aggressiva, se di per sé non ha immediato riscontro in caso di aggressività “gratuita” (es vandalismo), può indirettamente avere ricadute positive, per esempio nella stima che gli altri riservano al violento, nella deferenza che gli dimostrano, nella facilità con cui costui riesce poi a ottenere quel che chiede, fino ad un vero e proprio vantaggio nelle relazioni di base, in cui gli altri si mostrano disponibili, affascinati e si offrono automaticamente per guadagnarsi la sua stima o protezione.
Da una parte abbiamo i pochi serial killers, per i quali l’aggressione è ormai un modo di essere “fatti” anche senza poi consumare niente di sessuale. In altri casi si ha una possibile evoluzione patologica dell’aggressività, che diventa non più utile per chi la usa, oltre che lesiva per gli altri. In tanti altri casi ancora l’aggressività è una variabile che a seconda delle circostanze può rimanere inibita o esprimersi in maniera selvaggia e sistematica, come si osserva nella sorprendente metamorfosi che porta persone comuni a divenire aguzzini in condizioni favorenti.
Silvia Trevaini
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