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Pratiche di meditazione tra Oriente e Occidente

Nel continuo proliferare di libri, articoli e corsi incentrati sulla meditazione si è perso un po’ il senso stesso della meditazione intesa per quello che è: una pratica del tutto esperienziale. Si tende ad andare nella direzione opposta, parlandone a profusione, descrivendola, aggiungendo elementi, applicando concetti e quant’altro. C’è una propensione ad intellettualizzare eccessivamente la pratica meditativa, quindi ad “appesantirla” quando sarebbe opportuno focalizzarsi sul togliere, alleggerendo il più possibile.

Per comprendere meglio la meditazione senza indulgere in approfondimenti tecnici, può essere utile individuare riferimenti semplici, e quindi concreti, nella tradizione che ci appartiene, quella occidentale. Questo per non essere preda come spesso accade di suggestioni troppo “orientaleggianti” che portano a fantasticare ed immaginare la meditazione come una sorta di bacchetta magica che risolve tutti i problemi della vita quotidiana. Nel nostro immaginario comune associamo alle pratiche meditative, come minimo, visioni idilliache di vette innevate, monaci dagli occhi a mandorla, esotici padiglioni giapponesi, giardini Zen immersi nel silenzio. Sono luoghi comuni più vicini a uno spot pubblicitario che alla realtà, meglio sbarazzarsene pur riconoscendo il valore immenso delle tradizioni orientali. La meditazione è più vicina a noi di quanto pensiamo, anche dal punto di vista storico/culturale. Non è una questione di valutare quale tradizione sia più efficace, ma la constatazione che alcuni insegnamenti universali valicano ogni confine e hanno in comune molti aspetti, soprattutto la semplicità e il pragmatismo, in funzione di risultati tangibili. Approfondiamo l’argomento con Gianmario Aquilino, insegnante yoga e massaggiatore presso l’Ecoresort Le Dune, a Piscinas, all’interno del Parco Geominerario Storico Ambientale della Sardegna…

Per esempio, consultando alcuni testi dei padri del deserto, gli anacoreti cristiani, possiamo trovare più di un passaggio in cui si suggerisce di “non rendere gli insegnamenti materia inerte”. È un chiaro esempio di approccio attivo alle tecniche meditative, sottolineando l’importanza della pratica e suggerendo di non fossilizzarsi sulla parole che la descrivono ma sull’atto stesso. lo chiameremmo approccio Zen, appunto, se fossimo succubi dei luoghi comuni rivolti a Oriente.

Analizziamo un termine utilizzato frequentemente dai padri della Chiesa, quindi appartenente alla cultura giudaico-cristiana, la parola “humus”, terra in lingua latina, da cui deriva “humiltas”. Le due parole, collegate dalla radice comune, servono spesso come riferimento simbolico o diretto. Anche qui possiamo notare un’indicazione concreta, semplice, che riguarda la meditazione: si esorta a rimanere ancorati alla terra (humus, appunto), ad avere un approccio umile (humilitas) utilizzando come strumento quello che di più terreno abbiamo, il corpo, per sperimentare l’assoluto qui e ora, attraverso la pratica e senza perdersi in divagazioni inutili. Conseguentemente si suggerisce di assumere la posizione seduta, per fermare la tendenza naturale al movimento, e armonizzare il ritmo della preghiera e della respirazione. Citando Giobbe sedersi a terra simboleggia il “radicamento in una dimora sicura”. Ricorda senza dubbio l’essere “stabili e comodi nella posizione” degli Yoga Sutra di Patanjali, oppure la posizione Zazen della meditazione buddhista giapponese.

Proseguendo nel gioco di rimandi e riferimenti tra una cultura e l’altra possiamo trovare concetti che generalmente associamo alle discipline orientali, come il riferimento al corpo e al respiro come strumenti “evolutivi”. Lo possiamo fare scorrendo alcuni scritti di Gregorio Palamas, arcivescovo ortodosso nonché filosofo e teologo greco del XIV secolo, quando cita gli apostoli con la frase “i nostri corpi sono il tempio dello Spirito che è in noi” oppure quando afferma “Alcuni pongono l’intelletto del cervello come una specie di acropoli, mentre altri considerano suo mezzo il centro del cuore e quello che dal cuore viene liberato dal soffio animale. Anche noi, per precisa esperienza, sappiamo che la nostra ragione non è né dentro di noi come in un vaso, dato che è incorporale, né fuori di noi, perché è legata a noi, ma si trova nel cuore che è il suo organo adatto”

Si potrebbero trovare innumerevoli indicazioni di questo genere, tra testi sacri, commenti ed esegesi del testo per non parlare dell’arte sacra, densa di simbolismi e significati profondi. Davvero affascinante e stimolo per un approfondimento e un arricchimento infinito. L’importante è saper tradurre in pratica gli insegnamenti senza perdersi in concetti e ragionamenti che hanno la loro dignità e quindi ragion d’essere, ma nell’atto del meditare devono essere necessariamente messi da parte per non essere d’intralcio. In conclusione ricordiamo l’affermazione di San Paolo “Già e non ancora” un riferimento a vivere l’istante immediato, il qui e ora delle discipline orientali, immersi nella realtà senza seguire le dispersioni della mente: il fulcro di qualsiasi pratica meditativa, che provenga dall’oriente o no.

Silvia Trevaini

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