Nei casi di cronaca nera capita spesso di fare considerazioni sui moventi dei delitti. Specialmente in quelli efferati o che sembrano compiuti senza ragione, viene spontaneo di chiedersi che cosa abbia spinto un individuo a passare un limite fondamentale, come quello dell’omicidio. In termini giuridici è noto che si cercano subito due cose, sia da chi investiga per scoprire i colpevoli, sia da chi deve giudicarli in tribunale: il movente e la capacità di intendere. A questo entra spesso in ballo la questione della sanità mentale, sia per dare una spiegazione, sia perché da questa può discendere un diverso destino penale. Addirittura, una persona responsabile di omicidio, che però lo abbia compiuto in certe condizioni di alterazione mentale, può essere considerata tecnicamente non imputabile.
Ne parliamo con il Dottor Matteo Pacini specialista psichiatra del Centro Medico Visconti di Modrone, esperto e docente di medicina delle Dipendenze.
Si fa però una gran confusione tra il piano morale, quello biologico, e quello della giustizia. Prendiamo uno degli ultimi delitti, per esempio quello del ragazzo che ha pianificato di uccidere due conoscenti con cui aveva condiviso un appartamento per un breve periodo, motivando il gesto con l’invidia nutrita nei loro confronti, in quanto troppo felici rispetto a lui.
Di fronte ad un gesto del genere, molti fanno equivalere la premeditazione, e quindi la lucidità di un progetto che addirittura era stato messo per scritto punto per punto, come la prova che non c’era nessuna alterazione mentale. Si confonde uno stato mentale, magari profondamente alterato in senso delirante, ad uno stato grossolanamente visibile in termini di agitazione, disorganizzazione del comportamento, o espressione all’esterno di disagi con parole o azioni. La figura del paranoico lucido è una delle più classiche dei manuali psichiatrici, e concilia perfettamente la capacità di mettere in atto un piano e la profonda alterazione delle capacità di lettura e giudizio sulla realtà.
Un movente come quello del “ho ucciso perché erano troppo felici” è ovviamente un futile motivo se preso alla lettera, e quindi in tal caso un aggravante. Ma ci potrebbe esser dietro un altro tipo di pensiero, non così strano da concepire se si è abituati al pensiero paranoico. Ad esempio, che un individuo si possa sentire vittima in maniera mirata o comunque di fatto degli altri, cosicché il solo fatto che un altro possa essere felice e avere nella sua vita dei successi diventa come un’azione che l’altro compie contro di lui, un modo per rubargli qualcosa. Alcuni ad esempio percepiscono le azioni degli altri come una serie di atti tramite cui questi influenzano il loro cervello, lo disturbano, e così facendo impediscono loro di vivere e di ottenere risultati. C’è chi è convinto che sconosciuti per la strada siano d’accordo nel tossire, accendere il motore dell’auto, passarti accanto o fare dei gesti con la mano, in un sistema che, senza un motivo ma in maniera per loro “evidente” è teso a crear loro un disturbo, o a farli sentire a disagio. In ciò non c’è una logica compiuta, i deliri possono avere una loro struttura internamente logica, ma sono però “monchi” quando si parla di spiegarne l’origine o giustificarne la sussistenza.
Un altro tema frequente è che questi fatti avvengano a ciel sereno, con individui che potevano apparire normalissimi. E’ vero, ma di fatto nella ricostruzione di molti casi i colpevoli avevano dato segnali di anomalie del comportamento, o addirittura ricevuto delle diagnosi psichiatriche. Capita poi che chi è in preda ad una psicosi possa compiere un atto estremo, senza poi riuscire a ricostruirne una precisa ragione, anche perché, se la ragione era parte di un delirio, c’è poco da ricostruire sul piano logico. Se mai, e forse questo inquieterà molti, nel visitare persone che soffrono di deliri spesso ci si stupisce del contrario: ci sono persone che covano deliri profondi con convinzioni gravissime su persecuzioni ai loro danni, o minacce incombenti, che però paradossalmente non fanno poi niente, quasi come se queste realtà si svolgessero ad un livello diverso da quello concreto, in una “dissociazione” tra convinzione e comportamenti. Ciò che spesso salva i malati mentali dal compiere azioni violente è che nel contesto della loro dissociazione mentale non c’è una corrispondenza automatica tra pensiero e azione.
Per contro questo significa anche che purtroppo non è molto prevedibile il momento in cui una persona decide di passare dal pensiero all’atto, e perché proprio in quel momento e non prima in anni di delirio.
L’altro nodo confusionario riguarda il piano morale. Intanto, ci si dovrebbe decidere cosa si vuole dalla giustizia, se preferiamo una punizione, o una misura che neutralizzi la pericolosità. Naturalmente fa piacere sapere che ci sia anche un recupero, ma molti temono (e ci ironizzano) sul fatto che con una scusa o con l’altra i colpevoli di reati finiscano per cavarsela con poco. E dichiararsi malati di mente appare come una di queste “scuse”. Forse anche perché è troppo automatico che si consideri un soggetto non pericoloso solo in quanto ha passato un periodo in ospedali psichiatrici, o perché si è comportato bene, magari esprimendo pentimento e critica. Ad esempio, un soggetto come il mostro del circeo non ha più compiuto il reato di femminicidio semplicemente perché non ne ha avuto materialmente la possibilità. Che si sia dichiarato pentito, peraltro con una vena esibizionistica, poco importava ai fini di stabilire la pericolosità. Certo, neanche si poteva dare per scontato che l’avesse ancora. Ma le vicende giudiziarie come sedicente depositario, poi smentito, di verità e di potenziali rivelazioni su stragi e delitti vari, potevano far dubitare della sua genuinità.
Possono quindi esserci criminali psicopatici che però non provano alcun disagio, non sono proponibili per alcuna cura. Possono esistere pazienti psichiatrici gravi che compiono omicidi, ma che in presenza di una cura diventano innocui, così come anche casi analoghi per i quali non si trovano invece cure efficaci. Non si tratta quindi di capire se siano “buoni” o “cattivi”, né di stabilire che se non sapevano quello che facevano siano automaticamente recuperabili per via medica. Molti criminali chiaramente psicotici sono comunque ritratti come “il volto del male”, così semplicemente perché modello di pericolosità. Troppo tempo poi si perde a giudicare i moventi come fossero delle spine dorsali morali che distinguono i malvagi dai buoni: come dice in un suo testo fondamentale Robert Simon “I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno”. E quindi non sono tanto i motivi teorici per odiare, o i sentimenti covati, quanto la capacità di evitare di mettersi nei guai. La domanda vera e propria infatti spesso è che cosa ha spinto molti assassini a correre il rischio di rovinarsi la vita senza preoccuparsi neanche tanto di poter essere scoperti. Il pentimento, l’autocritica, la contrizione, sono tutte cose che non dicono niente a proposito della capacità di rimettersi nei guai, da capo.
Come diceva anche Vasco Rossi: “non sono gli uomini a tradire ma i loro guai”. E ad insegnarci questo sono le decine di delitti che, lasciando perplessi esperti ed interpreti, provengono da persone che – buone o cattive, psicotiche o non- sono rese pericolose dall’uso di droghe. La legge distingue chi le ha consumate (ed è un’aggravante) o chi ne è dipendente o lesionato in maniera permanente (ed è un’attenuante), ma le cose non sono così semplici. Anche in questo caso ci si immagina il drogato come un soggetto grossolanamente squilibrato, e lo si riconosce come privo di controllo solo se si vede da fuori (cioè per alcune droghe, in corso di intossicazione importante, o di astinenza). Invece, in queste circostanze è più probabile che i drogati siano sopraffatti da altri o causino danno a sé stessi. Ma è in tutte le altre situazioni, intermedie che la pericolosità aumenta.
Alla fine è giusto che dalla giustizia si pretenda qualcosa, forse il controllo della pericolosità, il controllo dei guai, non degli uomini. La pena, in sé, potrebbe essere inutile in ogni senso.
Ed è in questi termini che andrebbe riletta la componente psichiatrica, troppo spesso negata se si vuole stabilire che qualcuno è semplicemente cattivo, o negata perché “era lucido”. E’ in questi termini che dalle cure psichiatriche non si dovrebbe pretendere la creazione di uomini buoni, ma la prevenzione delle ricadute.
Silvia Trevaini
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