Quando il tempo non guarisce


Il dopo-trauma, tra depressione e aggressività

L’interesse pubblico su filoni di vicende di cronaca nera è crescente. Alcuni fenomeni, forse in aumento o forse no, come il bullismo, sono nuovamente definiti e discussi, fino a includere una serie di atti, anche meno gravi, che molti di noi possono aver subìto.

Ne parliamo con il Dott. Matteo Pacini, psichiatra del Centro Medico Visconti di Modrone.

La sindrome non è sempre uguale però. In alcuni casi prevale uno stato d’umore depresso, dimesso, impaurito e una tendenza a isolarsi, evitare i rapporti, essere impacciati socialmente con un senso di inadeguatezza, inferiorità, e anche colpa (quest’ultimo aspetto caratteristico dello stato depressivo). Altre persone, a parità di trauma, divengono esse stesse violente. Prevalgono l’aggressività, i comportamenti disinibiti, l’umore instabile, associati ad una tendenza all’indifferenza affettiva e alla capacità di “estraniarsi” dal contesto, di cambiare atteggiamento da periodo a periodo, di perdere il senso della propria continuità e coerenza nei rapporti con gli altri, fino a vere e proprie “crisi” d’identità. Possono esservi comportamenti autolesivi e abuso di alcol o droghe.

Perché questa marcata differenza? La cosa sembrerebbe genetica: il trauma “stressa” (forza) un meccanismo che risponde attraverso un irrigidimento della sua struttura. Chi è strutturalmente timido e mite diviene depresso; chi è strutturalmente reattivo diviene aggressivo. Questi bruschi cambiamenti di carattere non hanno quindi un significato preciso rispetto al trauma, se mai sono due modi in cui il trauma è vissuto, senza essere risolto in nessuno dei due casi. Se si vuole riconosce un “senso” adattativo; nel primo caso la persona cerca di adattarsi nel modo che gli è più immediato, cioè ritirandosi, nascondendosi. Nel secondo esponendosi, contrattaccando alla rinfusa.

Vi sono casi estremi in cui la violenza chiama altra violenza, e cioè l’abuso un tempo subito genera un cambiamento che rende la vittima a sua volta violenta verso gli altri, magari nello stesso modo. In questo caso la vittima arriva a “giustificare” la violenza subita dopo averla anche prodotta.  Questo tipo di familiarità “antisociale” è comunque solo una parte minore delle reazioni a trauma.

Il criminologo Athens sosteneva che la “violentizzazione” è possibile per chiunque, vale a dire che essere vittime di dinamiche di violenza rende violento chiunque. Questo è verosimile, ma include sia la patologia che l’adattamento “funzionale”.

Cosa uno ricava dalle esperienze traumatizzanti è ancor prima un presupposto strutturale, che una elaborazione libera. Questo è importante per evitare di fare un errore: dare un senso al proprio stato d’animo, come se dovesse spiegare il “perché” di quello che è successo e del proprio disagio successivo, e poi preoccuparsi di come modificarlo. La psicologia del trauma non è la spiegazione del trauma, ma la sua espressione, sulla persona. La migliore “vendetta” per un trauma può essere quella di imparare a capire in base a quali nostre caratteristiche siamo rimasti segnati in un modo piuttosto che in altro e se, al di là di queste, l’offesa ricevuta ha cambiato qualcosa nella nostra capacità di uscirne. In sequenza, le cure devono prima risolvere l’eventuale blocco “post-traumatico”, e poi occuparsi dell’adattamento a partire dalla struttura biologica/mentale della persona.

L’intervento va fatto appena possibile, perché sia le persone depresse che quelle incattivite tendono poi, per meccanismi opposti, a essere nuovamente esposti a traumi: le prime, perché non sanno difendersi, le seconde perché provocano situazioni di cui poi possono rimanere vittime, o che non riescono a controllare in un secondo tempo. Ogni nuovo trauma della serie non sollecita, finalmente, una risposta di adattamento efficace, ma anzi ribadisce i meccanismi del disturbo.

trevaini50Silvia Trevaini

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