Tossicodipendenza

Durante la tredicesima conferenza Europad viene assegnato il Chimera Award al Dott. Matteo Pacini, psichiatra del Centro Medico Visconti di Modrone e docente di Medicina delle Dipendenze, il quale risponde alle nostre domande.

Che cos’è che resta da dire sulla tossicodipendenza da eroina nel 2018?

Tutto. Questo non vuol dire che non si sappiano molte cose, ma che il messaggio non è per niente arrivato alla popolazione. I trattamenti funzionano meglio di anni fa, per volontà di un pugno di tecnici del settore che lavorano bene, ma gli errori sono sempre gli stessi di decenni fa. La malattia non è ancora capita.

Può darsi che dipenda dal timore che le persone hanno dei tossicodipendenti, o dal senso di colpa perché non si capisce il senso del loro stile di vita?

Non si tratta per niente di giustificarli, proprio perché parlare di malattia significa che non stiamo facendo discorsi morali. Voglio dire, che non stiamo dicendo chi si impegna e chi no, chi si controlla e chi no, chi se la cerca e chi no. Un medico non distribuisce dei “voti” al paziente, tanto meno se significa dare i voti ai sintomi: dire che chi è più malato si impegna di meno, non vuole guarire, e non riesce a controllarsi un minimo, è assurdo. Significa in pratica non fare il medico. Allo stesso modo, trattare i tossicodipendenti come persone dallo stile di vita autodistruttivo, da censurare e punire, oppure da compatire, significa rinunciare a capire cosa sia questo fenomeno.

Anche il paziente però è noto per essere un paziente difficile, sfuggente e non rispetta le indicazioni

Il medico ha un’arma forte. La sua autorevolezza. I pazienti si stupiscono, e possono seguire le cure, solo perché intuiscono che c’è un metodo, e anche se questo metodo è inizialmente il contrario di quel che loro pensano. Perché in realtà quando un tossicodipendente cerca di “manipolare” il medico, non lo fa perché convinto razionalmente di quel che dice o fa, ma perché istintivamente rifugge i rapporti terapeutici e vuole mantenersi “libero” di gestire il suo rapporto con la sostanza.

Perché un tossicodipendente sceglie di curarsi?

I tossicodipendenti hanno in testa un modello, che niente ha a che fare con la cura, che in breve consiste nel disintossicarsi, rimanere puliti e se mai cercare di controllarsi nell’uso, aggiustandosi in vario modo secondo metodi che sviluppano da soli. Alcuni, che ormai capiscono di non avere possibilità di controllo, continuano però a credere di dover provare e riprovare a disintossicarsi, e rimanere puliti, con varie strategie. In questo ragionamenti mancano totalmente le uniche cose certe della dipendenza: primo, è una malattia che va per ricadute, e quindi la ricaduta (per chi non si cura) non è un “forse”, ma è esattamente quello che va curato preventivamente. Secondo, la ricaduta e quindi la dipendenza non ha bisogno di nessun “motivo”, altrimenti non sarebbe una dipendenza. Terzo, la malattia non viene da fuori, ma è un problema “di testa”, soltanto che quando si dice così significa che viene dalla testa, non che bisogna controllare lo stile e l’ambiente di vita perché così la testa resta in equilibrio. Bisogna controllare la testa.

In pratica, i tossicodipendenti finiscono per curarsi, ma non nel modo che credono o che vorrebbero, poiché questo modo riflette semplicemente il pensiero indotto dalla loro malattia. Non a caso le cure ingranano meglio quando i pazienti hanno meno libertà di scelta, come nei trattamenti imposti per vie legali. Purtroppo, anche in questo caso, spesso si assiste a trattamenti alternativi al carcere che sono scelti secondo criteri non scientifici, ma di popolarità.

In cosa consiste un trattamento per la dipendenza da oppiacei?

La sua base è una terapia chimica, fortunatamente ben tollerata, altrimenti sarebbe inapplicabile, che utilizza farmaci in grado di influenzare le parti del cervello toccate dagli oppiacei tossici, e le riporta ad un funzionamento normale. In primis, spegne l’eccesso di istinto a usare oppiacei tossici, cioè fa smettere le persone di drogarsi di oppiacei.

Non significa però sostituire una dipendenza con un’altra?

No, esattamente il contrario. Si sostituisce una tossicità con una sanazione, e questo accade perché l’oppiaceo usato è fondamentalmente diverso, fermo restando che tocca le stesse parti di cervello danneggiate dagli oppiacei. E’ la differenza tra il metadone e l’eroina (l’uno come medicinale, e l’altra come droga d’abuso), che consente alla terapia metadonica di curare la dipendenza da eroina, di riparare i danni.

Ma anche il metadone dà astinenza, e magari chi lo prende poi è costretto a tenerlo a lungo

L’astinenza è un falso problema, non c’è motivo di procurarsela facendo rapide riduzioni o sospendendo la cura. Anzi, il fatto che la persona sia assuefatta a dosi “alte” di oppiaceo è parte del metodo di cura, perché impedisce di poter usare eroina anche a dosi alte. Per essere precisi, fu questa l’ipotesi iniziale del trattamento, cioè creare le condizioni farmacologiche per fare da “scudo” all’eroina, e allo stesso tempo creare un legame con il farmaco, cosicché non potesse facilmente smetterlo, in modo che prendendolo avesse il tempo di funzionare. La stessa cosa si fa oggi con i farmaci contro le psicosi, le iniezioni che durano un mese, per impedire che il paziente, ancora alienato, sospenda subito le medicine, prima che funzionino.

Poi, il fatto che la terapia duri a lungo non è un effetto collaterale o una mostruosità, è esattamente come deve essere. Deve durare a lungo. Alcune volte senza un termine, sicuramente senza fretta di farla finire, visto che le ricadute oggigiorno sono principalmente dovute a interruzione di terapie che magari avevano funzionato benissimo finché erano state tenute.

Se le cure ci sono, perché si continua ancora a morire di eroina?

Le cronache sono piede di incidenti considerati “inspiegabili” o “tragici”, che invece non hanno niente di tragico, nel senso che corrispondono a quello che ci si può aspettare da una tossicodipendenza. Ad esempio, se una persona “va in comunità” per disintossicarsi dall’eroina, e magari per entrarvi si chiede che non assuma le uniche terapie efficaci (metadone o buprenorfina), quando poi si verificano le classiche “fughe” dalla comunità o mancati rientri, con morte per overdose o incidenti vari, è inutile chiedersi “come mai?”. E’ sostanzialmente inutile prendersela con l’ultimo spacciatore che ha venduto la dose, chiamare in causa presunte dosi “killer”, o pretendere che le comunità possano trattenere le persone in qualche modo.

L’unica cosa che trattiene “da dentro”, cioè dal cervello, i tossicodipendenti, è una cura messa bene, a dose efficace. E’ in questo modo che gradualmente smettono di farsi, è in questo modo che se si fanno è comunque improbabile che vadano in overdose, ed è in questo modo che se anche continuano ad usare non corrono rischi inutili.

La cosa assurda, in questi casi, è che il rischio di overdose è maggiore tra queste persone “guarite” che poi ricadono dopo essere uscite da carceri, comunità, cliniche, piuttosto che tra i tossicodipendenti che si fanno tutti i giorni. E questo non è accettabile: che senso ha chiamare “terapeutico” qualcosa che non fa niente di diverso da quello che farebbe un tossicodipendente da solo, e in più crea una situazione a rischio maggiore?

Quando il problema salta fuori, le persone sembrano preoccupate di una cosa sola: dire che non sono tossicodipendenti, o che non sono “come gli altri”, o che non lo sono più perché “erano puliti”. Purtroppo anche i genitori e le persone vicine spesso alimentano questa inutile negazione, perché ritengono la cosa una categoria morale, e non una malattia. Le stesse persone accettano di presentarsi come depresse, come problematiche in mille modi, a patto che non si dica che hanno una tossicodipendenza. La frase che sento più spesso è “comunque non sono un tossicodipendente di quelli classici”, “sono un tossicodipendente  atipico”.

Sicuramente però si sa che le cure non possono essere così uguali per tutti. E’ possibile ridurre il tutto ad una pillola?

Le cure hanno delle regole precise. Una delle considerazioni più inutili è che “ognuno è un caso a sé”, o che non esiste una cura uguale per tutti, perché chi ragiona così finisce per fare una cosa assurda sul piano medico e scientifico, e cioè non dare a nessuno la cura normale. Prima di scendere in dettagli personali, è bene far riferimento agli schemi generali. Non è una semplificazione del problema, significa sapere da dove iniziare.

trevaini50Silvia Trevaini

VideoNews