Quali esami fare per valutare se la prostata è infiammata

Difficoltà a urinare o stimolo eccessivo, dolori ed eventuale presenza di sangue nelle urine sono sintomi frequenti, ma troppo aspecifici per capire esattamente l’entità del problema. Un semplice ingrossamento da tenere d’occhio? Un’infiammazione acuta?  L’irritazione della prostata può essere determinata anche da alcuni alimenti. O forse un vero tumore.

In Italia quasi un uomo su due viene assalito da questo dubbio nel corso della vita, ma per paura, reticenza o vergogna, in nove casi su dieci si rivolge al medico solo quando i sintomi diventano davvero insopportabili, come riporta un’indagine della Società italiana di urologia (Siu) condotta su oltre duemila pazienti. La prima cosa che fa il medico di famiglia è prescrivere un esame del sangue che misura i livelli di un enzima prodotto dalla prostata, il cosiddetto PSA ( o antigene prostatico specifico). Il PSA è un indicatore del volume e dello stato infiammatorio della prostata: non da certezze assolute  e per questo va interpretato. Pur non essendo un marcatore ideale per il tumore, ogni anno salva milioni di vite e nella maggior parte dei casi rimane ancora la prima spia della malattia. Il PSA va valutato in modo intelligente, considerando tutte le possibili interferenze che rischiano di alterarne i valori. Il PSA da solo infatti non basta per fare una corretta diagnosi e durante la visita medica, il medico esamina il retto: con un guanto di lattice va a toccare con mano le condizioni della ghiandola.

Se il valore del PSA è oltre la norma, ma la visita non riscontra anomalie nella prostata, si va a valutare forme specifiche di PSA con esami del sangue più sofisticati e costosi come il proPSA, l’indice PHI e lo score 4K, in grado di dare risultati più precisi e con un maggiore valore predittivo.

Al contrario, se il PSA è troppo alto e alla visita emergono problemi, bisogna approfondire lo studio della ghiandola. Le ultime linee guida raccomandano di eseguire in prima battuta la risonanza magnetica multiparametrica, che attraverso immagini ad alta risoluzione riesce a valutare diversi parametri come la morfologia della prostata, la perfusione dei vasi sanguigni, la densità delle cellule e il metabolismo. Questa tecnologia rappresenta una rivoluzione , perché permette di identificare con precisione quali pazienti sottoporre a ulteriori accertamenti.

La biopsia e l’esame istologico rappresentano il solo metodo per confermare in modo definitivo la presenza di un tumore nella ghiandola prostatica. È un esame ambulatoriale  che viene fatto in anestesia locale. Se l’esito della biopsia è positivo non bisogna perdersi d’animo: ogni mese ci sono nuovi farmaci, utili soprattutto nelle forme tumorali aggressive metastatiche. In pochissimo tempo, grazie alle innovative terapie ormonali “chemio-free”, le prospettive dei pazienti con tumore alla prostata metastatico o ad alto rischio di metastasi sono infatti radicalmente cambiate. Oggi, spiegano gli esperti, questi pazienti non solo hanno un’alternativa terapeutica alla chemioterapia, risparmiandosi tutti gli effetti collaterali che questa comporta, ma in base ai dati emersi hanno guadagnato anni di vita: dai 36 mesi di sopravvivenza garantiti dalla terapia ormonale tradizionale si è passati a una speranza di vita di poco meno di cinque anni. Dal 2020 ci sono importanti novità anche per i pazienti colpiti da un tumore della prostata localizzato che non crea particolari preoccupazioni: anche negli ospedali italiani, infatti, arriva la chirurgia focale. La tecnica, candidata a diventare l’alternativa alla sorveglianza attiva, non prevede l’asportazione di tutta la prostata , ma solo della parte interessata dal tumore. Oltre a ridurre drasticamente gli effetti collaterali come l’incontinenza e l’eiaculazione precoce, abbatte in modo significativo anche il rischio di dover intervenire negli anni successivi su una forma più avanzata della malattia.

trevaini50Silvia Trevaini

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