La negazione come meccanismo di difesa dell’equilibrio

“In realtà non è mia intenzione dire qualcosa di offensivo”…

“La persona del sogno non è mia madre”…

(Freud, 1925)

 

Il termine negazione fu inizialmente introdotto in ambito psicanalitico per indicare quel meccanismo per cui il soggetto, pur formulando uno dei suoi desideri, pensieri, sentimenti o emozioni fino ad allora rimossi, continua a difendersi da questi negando che gli appartengano.

Ne parliamo con Cristina Toni e Alessandra Del Carlo, specialiste in psichiatria del Centro Medico Visconti di Modrone.

Psichiatra Cristina Toni

“Freud lo descrisse per la prima volta nel 1895 nei suoi Studi sull’Isteria a proposito di pazienti che riferivano contenuti mentali a cui subito facevano seguire un commento che serviva a smentirli, oppure a non attribuirli a se stessi. Più tardi, nel suo scritto La negazione (1925), ne ampliò la definizione sostenendo che «la negazione è un mezzo per diventar consapevoli del rimosso[…]”, facendo riferimento ai contenuti mentali proibiti e relegati nell’inconscio che iniziano (spontaneamente o attraverso la terapia) ad essere portati alla coscienza, sebbene, almeno inizialmente, negati e quindi non accettati.

Nell’impianto teorico psicanalitico, pertanto, la negazione rientra tra i numerosi meccanismi di difesa messi in atto dal soggetto nei confronti di contenuti mentali angosciosi o inaccettabili.

Progressivamente, così come è accaduto per altre parole del linguaggio freudiano, il termine ha assunto una connotazione più ampia e ne sono stati messi a fuoco diversi specifici meccanismi.

Attualmente, si parla di negazione per indicare il rifiuto, consapevole o inconsapevole, di accettare propri comportamenti, emozioni e pensieri ma anche fatti, informazioni o, più in generale, qualsiasi dato di realtà.

Nello specifico, il modo in cui si manifesta il fenomeno è il medesimo descritto da Freud: la persona agisce come se un evento, un sentimento, un pensiero doloroso non esistessero o non gli appartenessero, nonostante le evidenze contrarie siano, talora, schiaccianti.

È possibile evidenziare il meccanismo già nella prima età infantile: si pensi a un bambino che viene trovato con la faccia sporca di cioccolata e nega di averla mangiata. Tuttavia, è presente anche negli adulti, e non sempre si associa a elementi inequivocabilmente disfunzionali o patologici o a strutture di personalità immature e “costituzionalmente” incapaci di far fronte alla realtà. Potrà essere capitato a tutti di affermare «comunque non sono arrabbiato», mentre mostriamo evidenti segni (verbali e non verbali) di aggressività, oppure di affermare “davvero non me ne importa nulla”, quando siamo chiaramente pervasi dall’invidia.
Nelle sue valenze adattive, la negazione è utilizzata dalle persone per garantire il mantenimento del proprio equilibrio psichico in contesti emotivamente complessi e percepiti come minacciosi. In particolare, è piuttosto frequente che si attivi in risposta a esperienze di vita particolarmente stressanti, come gli eventi traumatici o luttuosi.

Più in dettaglio, quando il soggetto è sottoposto ad una sollecitazione (interna o esterna) che assuma dei caratteri di criticità difficilmente riesce, fin da subito, ad acquisire la piena consapevolezza della medesima, del suo significato e delle sue conseguenze. La prima reazione della persona può, piuttosto, essere caratterizzata da incredulità e da un rifiuto completo, o parziale, dello stimolo o di ciò che significa o implica. Questa risposta permette all’organismo di avere il tempo per acquisire, gradualmente e lentamente, la necessaria maggior consapevolezza di quanto esperito, ma anche di reclutare le risorse cognitive e emotive per affrontare e gestire in modo adeguato lo stimolo stesso.

A tale proposito, la negazione viene considerata una delle fisiologiche fasi che permette alle persone di fronteggiare un lutto, soprattutto nel caso in cui la separazione o la perdita siano improvvise. In questa fase, che in genere segue immediatamente la scomparsa del proprio caro, la realtà della perdita risulta così intollerabile da dover essere rifiutata e le persone, tipicamente, reagiscono con affermazioni come “Non può essere successo, non è possibile”. Per un certo periodo, pertanto, osservare che i soggetti coinvolti possano comportarsi come se la perdita non si fosse verificata risulta del tutto normale. Non è infrequente, infatti, che le persone parlino dei loro cari scomparsi (o si rivolgano ai loro cari) come se fossero ancora con loro, talora ricercandone anche la presenza e aspettandosi di vederli comparire, come se si fossero allontanati solo momentaneamente.

Alla luce di questo esempio, appare chiaro come la negazione possa essere una reazione comune a qualsiasi evento critico che, quantomeno inizialmente, è troppo doloroso e/o minaccioso da elaborare per il soggetto. 

Analogamente, in risposta a varie tipologie di eventi traumatici non è infrequente che le persone, almeno inizialmente, si comportino come se non fosse accaduto niente di speciale o come se ciò che è accaduto non le toccasse particolarmente. Si tratta, anche in questo caso, della negazione di alcuni elementi dell’esperienza il cui verificarsi non esclude affatto la possibilità che il trauma in seguito venga affrontato adeguatamente e gradualmente superato. La risposta al trauma prevede, infatti, un processo complesso che, nella migliore delle ipotesi, esita nella capacità di integrare l’esperienza traumatica nella propria vita senza che questa venga rifiutata o negata, ma neppure che venga costantemente rivissuta in modo intrusivo, condizionando la quotidianità dell’individuo.

Allo stesso modo, in ambito medico non è infrequente che le persone che ricevono una diagnosi di una malattia grave ne rifiutino alcuni aspetti che risultino per loro eccessivamente angosciosi o inquietanti.  Alcuni potrebbero, ad esempio, negare la possibilità che la prognosi non sia positiva, rifiutando quindi l’eventualità di un esito infausto, oppure che le terapie a cui dovranno sottoporsi possano risultare invalidanti. In queste situazioni, la negazione permette di evitare di dover gestire, fin da subito, la complessità di una esperienza che indurrebbe sentimenti di afflizione o di ansia profondi. Ancora, in attesa del referto di un accertamento (o di un intervento), negare la possibilità di un esito negativo può aiutare la persona a non anticipare i medesimi sentimenti di angoscia e di ansia. Tuttavia, solitamente, lo scenario meno favorevole è presente nella mente della persona, e la negazione dà semplicemente il tempo di iniziare a maneggiare gradualmente quello scenario e di abituarsi alla prospettiva meno positiva. In diversi ambiti clinici, ad esempio in psico-oncologia (la branca della psicologia che studia i meccanismi psicologici che si attivano nei malati di cancro), i diversi sottotipi di negazione sono ben conosciuti e, in una certa misura, tollerati quantomeno se non raggiungono un’intensità tale da compromettere il corretto svolgimento degli accertamenti e degli interventi medici necessari per trattare al meglio il paziente. In questi contesti, pertanto, la negazione non è necessariamente scotomizzata, ma accettata nella sua valenza funzionale. Il suo vantaggio adattivo in questo caso è rappresentato dalla possibilità di permettere ai pazienti di assumere un atteggiamento meno ansioso e preoccupato nei confronti della malattia, permettendo loro di focalizzarsi sugli aspetti pratici e operativi su cui possano esercitare un controllo. Inoltre, negare la possibilità di elementi di decorso negativi può favorire l’innesco di un’aspettativa positiva riguardo agli sforzi che il paziente stesso e i suoi terapeuti potranno fare al fine di gestire la malattia.

D’altro lato, molto diversi sono gli scenari in cui un soggetto si ponga in una posizione di rifiuto persistente della possibilità di poter essere oggetto di una qualche patologia o di un problema fisico, arrivando persino ad ignorarne i segni o i sintomi. Alcune persone, ad esempio, ritardano nel sottoporsi ad esami strumentali e ad accertamenti per la paura di affrontare gli scenari che si aprirebbero, pur essendo consapevoli che un riconoscimento e un intervento precoce garantirebbero un maggiore successo nel trattamento di una eventuale patologia.

Un meccanismo simile e chiaramente patologico si attiva quasi costantemente nelle persone affette da dipendenze (sostanze, gioco o cibo) coinvolgendo, talora, non solo i soggetti stessi ma anche i loro familiari. In questi contesti si assiste al progredire e all’intensificarsi del rifiuto ad ammettere l’esistenza di un comportamento problematico iniziando con la negazione dello stesso, delle sue conseguenze e/o rifiutandosi categoricamente di cercare un aiuto specialistico.”

Concludendo, di fronte a stimoli critici per il soggetto, la negazione di una parte dell’esperienza soggettiva o oggettiva può essere un meccanismo adattivo e utile. Tuttavia, è importante essere consapevoli che la negazione dovrebbe rappresentare una strategia per fronteggiare un problema, temporalmente limitata e di entità contenuta. La realtà dell’esperienza, infatti, non sarà modificata dalla tendenza a negarne alcuni aspetti e pertanto, prima o poi, l’esperienza stessa, per quanto negativa, dovrà essere affrontata e gestita.

Qualora, al contrario, la negazione dovesse perdurare in modo pervasivo, sarà indispensabile ricorrere all’aiuto dello specialista.

 

trevaini50Silvia Trevaini

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