La dipendenza da eroina è tornata di moda. Si potrebbe dire “purtroppo”, ma non c’è bisogno perché non è vero. La moda riguarda solo una sua nuova forma che da un po’ di anni ha rinnovato l’immagine delle droghe oppiacee. Perché si dice allora che i tempi peggiori erano una volta? Due i motivi. Il primo è che negli anni ’70 fino agli ’80 si era in fase epidemica, cioè rapida salita dei casi e diffusione in ogni realtà, dalle grandi città ai piccoli paesi. Il secondo motivo è che dalla fine degli anni ’90 la risposta del sistema sanitario è stata coordinata e parzialmente efficace, almeno nel contenere il dramma quotidiano. Meno overdose, minore età di richiesta delle cure, contenimento del rischio di infezione hiv, maggiore sua curabilità….. tanti vantaggi che hanno reso il dramma meno crudo.
Con che occhi la società italiana ha visto il fenomeno? Lo ha capito, o in fondo no. Come è possibile che da allora ad oggi questo tipo di persone, e le loro famiglie, siano ancora un terreno di pesca per psicosette e truffatori vari, o terreno di sfruttamento per una pseudo-medicina che mette a disposizione apparentemente tutto, in realtà il nulla assoluto (disintossicazione, riabilitazione, educazione, assistenza sociale… ma non la cura). Ne parliamo con il Dott. Matteo Pacini, medico chirurgo, Specialista in Psichiatria e docente di Medicina delle Dipendenze presso l’università di Pisa.
Oggi come oggi ci dobbiamo preparare ad una nuova epidemia di droghe oppiacee, che sono quelle di sintesi già diffusissime in altre parti del mondo come gli USA, e che da noi già fanno contare le prime vittime, in testa l’ossicodone e il fentanyl.
I nuovi tossicodipendenti non sono a bucarsi nei parchi (più spesso a inalare), per quanto si riducano alla ricerca costante di droga e soldi, riescono a trovarne con una certa facilità rispetto a decenni fa. Chi ha soldi la riceve a domicilio. Ed è un dramma meno collettivo, meno sensibile sulla pelle delle comunità. Più nascosto nelle vite individuali.
Un modo per ripercorrere la visione della dipendenza nella società Italiana è attraverso i testi delle canzoni dei nostri cantautori, più o meno noti. Dentro questi testi, alcuni famosissimi, ci sono verità profonde ma anche errori madornali sulla visione della dipendenza e delle ragioni che fanno muovere i drogati tossicodipendenti.
Il linguaggio della musica è forse ancora più efficace nel far capire cosa è il “craving”, perché il personaggio del tossicodipendente è difficile da capire, e perché i tossicodipendenti stessi rimangano spesso senza parole per spiegare cosa sta loro succedendo.
I tossicodipendenti nelle canzoni sono sempre giovani, belli e sfortunati, forti ma deboli, che scompaiono nella malattia insieme ai loro sogni, per la disperazione di chi li amava e li avrebbe voluti aiutare. Oppure sono incoscienti che corrono inspiegabilmente il rischio di distruggersi, fino a farlo lentamente, in una spirale inspiegabile che hanno scelto, ma perché?
Nel mio breve saggio “La dipendenza cantata” ho cercato appunto di fornire un nuovo strumento per capire questo fenomeno. Ai medici e addetti ai lavori, per rivedere i concetti attraverso un linguaggio. Si capisce meglio con le parole di una canzone dove inizia la dipendenza, e come inizia, forse. E si capiscono meglio anche gli errori, la difficoltà nel far capire a pazienti e famiglie quale sia il problema, se si ragiona su come gli artisti la raccontano, cosa percepiscono, da cosa rimangono colpiti e cosa sfugge loro, clamorosamente.
Il tossicodipendente “cade” nella droga, o è somiglia ad una mongolfiera che non riesce a tornare a terra? C’è una parola per dare un nome al “perché lo fai”? Come cantava Masini? Perché chi è dipendente non riesce a dire che ha paura, come dice De Andrè? … E da cosa deriva quel “sorriso strano” che il personaggio di Fegato Spappolato rivolge alla madre?
Silvia Trevaini
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