L’attacco di panico e il relativo disturbo sono stati il cavallo di battaglia della psichiatria ambulatoriale di questi ultimi decenni. È un disturbo che spaventa molto chi lo ha, con la sua essenziale “paura della paura”, condiziona la vita e le scelte, complica l’idea che uno ha di sé con mille interpretazioni, ma è abbastanza semplice da curare. Ne parliamo con il Dott. Matteo Pacini, medico chirurgo, Specialista in Psichiatria e docente di Medicina delle Dipendenze presso l’università di Pisa.
Gli psichiatri sapevano già curarlo dagli anni 70, ma i medicinali che c’erano allora erano meno maneggevoli. Lo “scatto” nella facilità con cui si poteva curare il panico risale all’inizio degli anni ’90, con la classe dei farmaci SSRI. Nonostante questo, però, la conoscenza del disturbo spesso si limita alla nozione, cioè a conoscere che cosa significa la diagnosi in termini di sintomi. Molte persone, una volta risolto il panico, si disinteressano di fatto dei suoi meccanismi. Rimane la paura che possa tornare, ma non nasce l’interesse per comprenderne alcune dinamiche che poi sono utili in caso di eventuale ricaduta. In più, da quando la parola “panico” ha cominciato a circolare, diventando parte del linguaggio emotivo corrente, le espressioni “essere in panico” o “andare in panico”, o “attacco di panico”, che è quella più tecnica, sono usate in maniera impropria, a indicare semplicemente tutti gli stati d’ansia.
Una cosa ancora non chiara è che si chiama “panico” proprio per distinguere, tra i vari tipi di ansia, quella forma che non ha oggetto (paura essenziale) ma che può poi prenderne uno dal contesto in cui si è colti dall’attacco, oppure rivolgersi al corpo, in quanto il nostro sistema di allarme essenziale, in assenza di pericolo, fa pensare ad un pericolo interno imminente (infarto, ictus, etc). Non è raro che chi ha il panico si stupisca dicendo “io di solito non sono una persona paurosa” oppure “non c’era niente in quel momento che mi mettesse ansia”, e infatti questi due punti non c’entrano col panico (essere paurosi e avere qualcosa che mette ansia). Altrettanto sbagliato è cercare la causa generica del tipo “devo essere stressata”, perché il significato di questo termine è tanto vago quanto inutile, se non si identifica un eventuale fattore specifico, che non può certo essere “occulto”.
Per quanto riguarda invece il pensiero che l’attacco dipenda da qualcosa di corporeo, si tratta di un pensiero, logico, specialmente durante i primi attacchi, e può innescare una vera e propria preoccupazione di avere una malattia non riconosciuta che si esprime con questi fenomeni, nonostante le rassicurazioni dei medici. La paura fondamentale di chi ha il panico non riguarda neanche il corpo, ma è uno stato di allarme che non si risolve, come in chi scivola nel vuoto o è sparato da un cannone.
Il disturbo di panico, al di fuori degli attacchi, coincide con lo svilupparsi del timore del nuovo attacco. L’istinto di chi ha avuto il panico è di evitare il ripetersi del panico, ed è per questo che il fatto di potersi allontanare da un luogo o di non essere notati se dovesse accadere assumono un peso fondamentale. L’istinto fondamentale infatti, rivelato dal comportamento, è quello di tornare in un luogo sicuro, che di solito è identificato con la casa, la famiglia, il luogo d’origine. Se c’è un fattore scatenante del panico che in molti casi è identificabile, è la distanza dalla casa. Per molte persone l’inizio del panico coincide con una fase della vita in cui ci si allontana dal proprio luogo familiare, o dalla famiglia, o in cui viene meno un riferimento familiare a cui far ritorno, o si cambia casa, o si è costretti a viaggiare per lavoro. Anche a livello visuo-spaziale, un soggetto in preda al panico spesso ha difficoltà a orientarsi nello spazio, ha il timore di non trovare la strada, e non la trova, si fa venire a prendere come se non fosse capace di tornare indietro.
La spinta a tornare a casa è un paradosso frequente rispetto all’idea del rischio medico. Una persona col panico, che lontano da casa ricorre spesso a medici o al pronto soccorso, si tranquillizza quando è in un ambiente che considera sicuro, tipicamente casa propria, dove sa che sarà accolto e non dovrà fuggire. Non si fugge da casa, insomma. Un soggetto spaventato da un sintomo x tenderà a rimanere spaventato comunque quando arriva in pronto soccorso, almeno finché qualcuno non gli dice che cosa ha, e che è tutto sotto controllo. Un soggetto col panico spesso è tranquillizzato dal fatto che gli si somministrino ansiolitici (se già conosce il panico) o dal solo fatto di trovarsi in mezzo a medici e infermieri, cosa che permette di riconoscere il panico. La stessa richiesta di aiuto di un soggetto in panico è un allarme di per sé maggiore che non quello di chi ha malesseri di altra origine.
Inoltre, benché sia molto più pericoloso sottovalutare un infarto che un panico, chi ha un panico non perdonerà mai chi non lo ha preso sul serio. Se un familiare ha sottovalutato i primi attacchi, e non ha mostrato abbastanza sollecitudine nell’accorrere o nel portare la persona in ospedale, in futuro sarà considerato non rassicurante, e quindi non protettivo rispetto al panico stesso. In caso contrario, la persona col panico tenderà a legarsi a colui che lo asseconda e non gli fa problemi a portarlo dove vuole se ha una crisi di panico. Il legame che si stabilisce tra persone con panico e ansiolitico ha la valenza di un sintomo: l’ansiolitico serve e togliere la paura del panico, che è la palla al piede di chi soffre di panico. Togliere la paura di un infarto, in chi è preoccupato di poterlo avere, non conta niente senza la prevenzione dell’infarto stesso. Nel panico sì, togliere la paura è istintivamente più importante della prevenzione. Il malato di panico, quando ricade, non va a ripescare il vecchio farmaco SSRI con cui era stato bene magari per anni, ma va a ripescare l’ansiolitico.
Infine, lo stato di allarme è talmente essenziale, che ogni volta è come nuovo. In altre parole, se da un punto di vista razionale la persona capisce di avere il panico, dal punto di vista istintivo, a seconda dell’intensità dell’attacco, la persona si comporta come spiazzato di fronte all’attacco Questo fenomeno si osserva ad esempio nelle ricadute, dove la persona tipicamente non presenta la ricaduta come tale, e si chiede che cosa mai potranno essere quei particolari sintomi che gli sono tornati. Capita spesso che i sintomi delle crisi di panico alle ricadute siano presentati come “stavolta diversi” dal paziente, mentre il medico, che fonda la diagnosi sul riconoscimento delle dinamiche e dei sintomi mentali, giurerebbe di aver già sentito la stessa descrizione anche le volte precedenti. La stessa cosa tende ad accadere nelle fasi acute: quando la persona sperimenta i primi attacchi, nel tempo non tende a normalizzare l’esperienza, cioè a concludere che soffre di un qualcosa di ripetitivo. Tende invece a trattare ogni attacco come una relativa novità, come se indicasse ogni volta un elemento non riconosciuto, diverso, atipico, che aggiunge mistero al mistero, rimettendo tutto in discussione.
Questo mistero, in passato ma anche oggi, a volte, è interpretato magicamente. In un bel film di Lina Wertmueller, “I basilischi”, si raccontano le vicende di un paese della Puglia rurale. In una scena si vede uno che arriva con la valigia da Roma, dove era emigrato, che dice di aver decido di tornare a casa perché aveva cominciato a star male. Racconta che in una piazza ha avuto un malore, che i medici non hanno saputo spiegare, e da allora non è stato più bene. Per cercare di risolvere la cosa è tornato al paese, perché nel frattempo i parenti hanno consultato una maga, che ha diagnosticato il malocchio, la “malìa”. E secondo la maga, la malìa può essere tolta soltanto tornando nel luogo dove è stata fatta, al paese. E l’uomo sembra, più che rassegnato, sollevato intanto dal fatto di dover tornare al paese, al sicuro. Nel film l’episodio probabilmente simboleggia l’immutabilità delle cose, il paesano che torna a casa senza aver combinato niente, l’assenza di prospettive con la scusa di malocchi e magie varie, mentre invece il legame vero e proprio è quello della mancanza di spinta a cambiare le cose. Ma da psichiatra, io ci ho visto immediatamente una sintesi elegante e perfetta del panico.
Silvia Trevaini
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