
Nella quotidianità frenetica di oggi, la casa è diventata uno dei principali indicatori del nostro benessere. Quando gli spazi sono sovraccarichi, anche la mente tende a esserlo: aumenta l’attivazione, diminuisce la chiarezza e il livello di stress sale senza che ce ne accorgiamo. Al contrario, un ambiente leggibile e funzionale aiuta il sistema nervoso a rallentare, favorisce concentrazione e migliora la qualità del riposo. È proprio su questo legame tra ordine ed equilibrio interiore che si concentra il nuovo libro di Irina Potinga, “L’arte di mettere in ordine la vita”. Un lavoro che interpreta il decluttering come un vero processo di consapevolezza: non una pratica estetica, ma un modo per recuperare energia mentale, ridurre il carico emotivo e riallineare il ritmo quotidiano. Nel suo metodo, ogni scelta diventa un gesto di autoregolazione: un oggetto lasciato andare, uno spazio riprogettato, un flusso domestico reso più fluido. Il libro mostra come piccoli interventi possano trasformare la casa in un alleato del benessere e non in un ulteriore fonte di stress. Questa intervista nasce per approfondire i temi centrali del volume: come gli oggetti raccontino emozioni, quali segnali il disordine ci invii e quali micro-abitudini possano sostenere davvero una vita più leggera e più coerente con chi siamo oggi.
Nel tuo nuovo libro “L’arte di mettere in ordine la vita” spieghi come un ambiente più leggibile influenzi il nostro equilibrio mentale. Qual è il primo beneficio che le persone percepiscono quando iniziano a fare spazio?
Il primo beneficio è un immediato abbassamento del rumore mentale. Quando togli ciò che non serve più—che siano oggetti, vecchi accumuli o stimoli visivi—il sistema nervoso si rilassa, come se smettesse di dover elaborare continuamente informazioni superflue. Le persone mi dicono spesso: “Mi sento più leggera, respiro meglio”. Fare spazio significa creare un ambiente che sostiene, non che drena. E quando la mente non è più impegnata a “gestire il caos”, emergono più chiaramente i pensieri giusti, le priorità, la direzione.
Scrivi che il caos domestico è spesso un segnale, non un difetto. Quali sono gli indicatori più evidenti che rivelano un sovraccarico emotivo dietro gli oggetti accumulati?
Il disordine non arriva mai per caso. Ci sono tre indicatori molto chiari:
– Accumuli “di rimando”: oggetti lasciati in giro perché non abbiamo energia mentale per decidere cosa farne. Sono un segnale di sovraccarico emotivo (carico mentale), non di pigrizia.
– Spazi bloccati: cassetti o armadi che non apriamo mai. Svelano parti di vita che stiamo evitando o emozioni che non vogliamo affrontare.
– Oggetti identitari: tutto ciò che teniamo “perché mi ricorda chi ero”. Parlano di un’identità che non c’è più, di una versione di noi che fatichiamo a lasciar andare.
Nel libro insisto su questo: il disordine è un messaggio, non un fallimento. C’è qualcosa da rimettere a posto dentro di noi, prima ancora che fuori. Ma il primo passo è sempre quello di lasciar andare fuori, per riconoscere dentro di noi questi blocchi.
Nel libro racconti quanto alcune categorie “attivino” emozioni intense. Quali sono quelle che mettono più alla prova chi inizia il percorso di riordino?
Le categorie più delicate sono sempre le stesse, a prescindere dalla persona:
– I vestiti, perché contengono identità, autostima, cambiamenti di vita, versioni passate di noi.
– Gli oggetti emotivi, cioè tutto ciò che porta con sé ricordi, relazioni, storie che non abbiamo ancora elaborato e chiuso del tutto.
– Gli oggetti “che un giorno potrebbero servire”, perché rappresentano la paura del futuro e la mentalità di scarsità.
Queste categorie attivano resistenze perché non stiamo solo decidendo cosa tenere e cosa lasciar andare: stiamo decidendo chi vogliamo essere oggi. Il decluttering non è mai solo pratico: è emotivo, identitario.
Parli spesso di micro-abitudini sostenibili. Qual è il rituale quotidiano che, secondo te, permette davvero di mantenere continuità e di evitare il ritorno del caos?
Il rituale più efficace è quello dei 10 minuti:
Dieci minuti in cui, la sera, riporti ordine nei punti principali della casa:
– rimettere gli oggetti al loro posto (ogni cosa deve avere la sua casa)
– liberare le superfici (il tavolo, la scrivania, il top della cucina, il mobile all’entrata)
– lasciar andare eventuale superfluo
– preparare ciò che servirà il giorno dopo (la borsa, i vestiti, la to-do list)
Non è una pulizia profonda: è un gesto di intenzionalità. È ciò che mantiene la casa “leggera” e previene gli accumuli. Nel libro spiego che la continuità non nasce da grandi azioni, ma da piccole abitudini automatiche: micro-scelte coerenti che fanno sentire la vita più nostra e meno casuale.
Nel tuo metodo, piccoli cambiamenti ambientali possono modificare la percezione di stress. Quale elemento, luce, flusso, stimoli visivi, ha il maggiore impatto sulla sensazione di calma?
Gli stimoli visivi sono l’elemento più immediato. Il nostro cervello è progettato per “leggere” continuamente ciò che vede. Più oggetti, colori, carte fuori posto, superfici piene… più il cervello resta in uno stato di attivazione continua. Quindi la soluzione è ridurre il disordine visivo – cioè avere superfici pulite e libere, meno oggetti in vista (da ridurre anche la quantità di testi/grafiche, quadri e foto), equilibrio cromatico (colori neutri e monocolore) – produce un effetto di calma, chiarezza, radicamento. La casa diventa uno spazio che regola il ritmo interno, non che lo accelera.
Per chi legge “L’arte di mettere in ordine la vita” e vuole iniziare subito, qual è l’avvio più semplice e realistico per mettere ordine senza sentirsi sopraffatto?
Il punto di partenza più semplice è: 10 minuti e una categoria alla volta. Non una stanza intera, non un intero armadio, e non per prima i ricordi personali. Ad esempio: un cassetto, una mensola, la borsa, un piano d’appoggio, il bagno…
Qualcosa che ti permetta di vedere un risultato immediato, senza carico emotivo. Perché vedere un risultato concreto – uno spazio che torna in ordine – rafforza la motivazione e ti fa capire che puoi farcela.
Il secondo suggerimento è: non partire dall’estetica, ma dall’intenzione. Chiediti: “Che cosa voglio ottenere con questo ordine? Quale versione di me sto favorendo?” Quando la motivazione è interna, il percorso non diventa più “un lavoro da fare”, ma un atto di identità.

Silvia Trevaini
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