La trasmissione Report si è occupata nell’ultima puntata della genetica come strumento di difesa nei casi delittuosi.
“La storia di questo tema è molto vecchia: a me viene in mente un famoso film di Dario Argento, “Il Gatto a nove code”, che si ispirava ad una delle prime scoperte in fatto di genetica comportamentale, il genotipo XYY. Nel film, un gruppo di ricercatori ha individuato questa caratteristica “cromosomica” come base di una tendenza alla violenza, ma da questo origina una catena di delitti. Si scoprirà che il colpevole è uno di loro, che si è sottoposto al test e cerca di nascondere il fatto di essere lui stesso portatore della famigerata anomalia. Un destino che si compie, insomma, con un’apparente giustificazione”, ci spiega il Dott. Matteo Pacini, medico chirurgo, Specialista in Psichiatria e docente di Medicina delle Dipendenze presso l’università di Pisa.
L’XYY, raro nella popolazione, era meno raro tra i colpevoli di reati violenti, ma troppo poco per spiegare la genetica della violenza. Oggi si sa un po’ di più. Intanto, si sa che non è tutto genetica “dall’inizio”, ma anche genetica indotta, cioè la cosiddetta epi-genetica. Non possono cambiare i geni, che sono gli stessi per sempre, ma può cambiare la loro espressione, o l’equilibrio tra una serie di alternative geniche che abbiamo in dotazione.
Un animale dal pelo bianco può diventare grigio quando il clima si modifica, e così un uomo può diventare aggressivo quando il suo cervello è sollecitato in determinati modi.
Per esempio si sa che chi è sottoposto a violenze da giovane può diventare a sua volta violento, autore anche dello stesso tipo di violenze, e questo dipende in maniera pesante da un fattore genetico. Se c’è, il “violentizzato” (termine tecnico) diviene violento; se non c’è, la reazione è più di tipo depressivo. Insomma, la vittima che diventa carnefice: Dario Argento aveva usato anche questo spunto per un altro film “L’Uccello dalle piume di Cristallo”, in cui una donna vittima di uno stupro diventava poi un’omicida perversa che si immedesimava nel ruolo del suo aggressore.
Sicuramente ci sono “situazioni” cerebrali che lasciano aperta (troppo) una porta alla perdita di controllo, e che quindi sono utilizzate come base per poter sostenere che la persona era incapace di intendere quando compiva determinate azioni.
Una cosa che pochi sanno è quel che può accadere con l’uso di sostanze, specialmente in quei soggetti che hanno (e non possono sapere di averlo) una genetica particolare. La metamfetamina noi l’abbiamo conosciuta negli anni ’90 come MDMA, e in altre parti del mondo è molto diffusa in forma di preparato da inalare o iniettare. Sta arrivando anche da noi, ma in gruppi limitati.
Sono stati compiuti studi sui cervelli di ex utilizzatori, in cui si è individuato un effetto tossico su alcuni tipi di cellule nervose, selettivamente. Pare che questo abbia a che fare con lo smaltimento dei neurotrasmettitori in eccesso. Quando le cellule si ingolfano di questi prodotti di smaltimento, possono degenerare, e questo destino in un certo senso lo hanno già determinato i geni, che determinano il livello di attività degli impianti di smaltimento cellulare.
Gli utilizzatori più pesanti riescono a “reggere” meglio le sostanze, smaltendole meglio, ma allo stesso tempo sono anche coloro che ne riporteranno danni maggiori. Divengono soggetti predisposti a atti di violenza, probabilmente anche per la presenza di deliri o allucinazioni, anche dopo aver cessato l’uso. Uno dei geni in ballo è quello MAO, il gene dell’impianto di smaltimento diciamo, ma non è l’unico.
Non si sa se è genetico, ma anche il rischio di riportare gravi danni da cannabis ha perlomeno un nesso con la presenza in famiglia di casi di psicosi. Esiste invece una genetica già nota alla base dei comportamenti impulsivi nelle persone con la sindrome ADHD, che può associarsi alla cosiddetta personalità antisociale. In base alla genetica si può distinguere la tendenza alla disattenzione da quella all’impulsività e aggressività, che quindi sono separate in un certo senso geneticamente prima che moralmente.
Tornando nei tribunali, la genetica è un’arma in genere favorevole sulla pena, ma comporta un giudizio di pericolosità “immodificabile”, almeno come rischio di base. Molti storcono il naso perché anziché condannare una persona, si condannerà il suo cervello, cosa che ovviamente apparirà molto meno sensata. Sempre più si potrebbe quindi assistere ad una sistematica assoluzione di soggetti con cervelli colpevoli, ma giudicati a parte dalla loro persona. Per uno scienziato non esiste questo problema, siamo tutti responsabili o non responsabili, non è un problema biologico.
Ma un senso pratico nella pena e nel giudizio di pericolosità rimane un piano interessante di discussione. Non basta la “capacità di intendere e volere”, e non basta dire che è “parzialmente ridotta”. Ci vorranno studi e ragionamenti un po’ più specifici per ricostruire un concetto di “libertà biologica” che possa corrispondere al concetto di responsabilità morale.
Silvia Trevaini
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