“Può capitare che dica a qualcuno dei miei pazienti, ossessionati da dubbi, domande o ragionamenti che li affliggono e li stritolano: bisognerebbe che lei ci capisse un po’ di meno, oppure fare in modo che capisca peggio”, spiega il Dott. Matteo Pacini, medico chirurgo, Specialista in Psichiatria e docente di Medicina delle Dipendenze presso l’università di Pisa. ..
La capacità del cervello di darsi risposte è uno dei nostri vanti come specie umana. A dir la verità non sappiamo esattamente quali risposte si diano le formiche o i canarini, però pare che almeno noi siamo, per dotazione organica, quelli che si pongono domande più complesse, e possono darsi risposte più complesse.
Ora, questa facoltà ha degli effetti collaterali. Il primo e più comune è un’altra caratteristica che pensiamo ci renda diversi, cioè la consapevolezza, la riflessività. L’uomo pensa se stesso, si fa domande. Un bambino cresce riempiendo i genitori di “perché?”, e spesso i perché che non hanno risposte sono soltanto un modo di ripetersi quel che vedono o hanno sentito spiegare, alla ricerca di una ulteriore spiegazione.
Ad un certo punto gli adulti allargano le mani come dire “che significa perché? E’ così e basta”. Volendo si potrebbe anche rispondere a quei perché, prendendoli alla lettera. Per esempio: “Il limone è giallo”. “Perché?” – Si potrebbe cominciare a spiegare la fisica ottica dei colori, secondo la quale il colore risulta dalla ricezione, da parte dell’occhio umano, delle frequenze non assorbite dalle superfici. Nel caso del limone, le frequenze che corrispondo al colore giallo. Ma si potrebbe proseguire: “e perché si chiama giallo?” “perché giallo e non rosso, cosa lo determina?”, “perché funziona così la vista?” . Anziché avere una risposta, ho già ottenuto tre domande nuove. Ad ogni risposta si aprono diverse nuove possibili domande.
Dopo un po’ che si prende coscienza di questo meccanismo, ci si rende conto che la facoltà dell’uomo non è quella di dare risposte, ma quella di fare domande. La consapevolezza di sé non consiste nel sapersi spiegare il perché delle cose, ma nel chiederselo, come se prendessimo una certa distanza tra ciò che siamo, e lo guardassimo dall’esterno cercando di sapere come si siamo arrivati a questo punto.
La malattia delle domande è il disturbo ossessivo compulsivo. Sono domande che non sempre corrispondono a riflessioni articolate, può essere anche il semplice “tic” della domanda su una cosa. Guardiamo un oggetto e sentiamo l’impulso a toccarlo, o spostarlo. Ci chiediamo perché stiamo pensando. Ci chiediamo che azione fare mentre la stiamo facendo. Possono essere domande espresse in forma di pensiero o in gesto. Se sono pensieri, possono inizialmente somigliare a domande nuove, aperte, e soprattutto lecite.
Ad un certo punto però il cervello ci dà un segnale, si accende la spia della cosiddetta “egodistonia”. Il cervello ci fa sapere che trova inutile quel tipo di domanda, la giudica un problema, non la vuole, non è interessato a porsela. Però allo stesso tempo non può impedire che venga a galla e ci stia. E’ questa la spiacevole sensazione di chi è ossessionato: avere domande che non vorrebbe, ma essere costretto a svolgerle, come si va verso una risposta, e in maniera urgente, prioritaria, sofferta.
Il bisogno di risposta che risulta dalla domanda ossessiva può tenere bloccato tutto, come un ingorgo stradale provocato da un motorino che si è messo di traverso. Ma il problema vero e proprio è che a questo punto uno può pensare che l’ossessione si superi facendo leva e forza sulla propria razionalità. Trovando una buona risposta, e in maniera intelligente o completa, si fregherà l’ossessione. No, sbagliato: quello è il modo in cui ci si avvita. Sempre restando in tema di ingorgo stradale, qualcuno forse conosce il film “Il vigile “ con Alberto Sordi, con la scena in cui dirige il traffico in una rotonda alle porte di Roma. Un traffico che si sarebbe risolto da solo incappa nel vigile che si mette a dirigerlo, e così si forma un incastro incredibile e comico.
Molti scambiano le ossessioni per pensieri “irrazionali”; e conseguentemente credono di poterle sbrogliare con la ragione. Essi sono pensieri razionali, anzi lo sono troppo, perché sono domande che non si fanno bastare le risposte. Come i bambini che ti tirano per la giacca e ti continuano a chiedere “Perché?”. Non stanno ponendo domande irrazionali, “da bambini”, stanno semplicemente ponendo la domanda delle domande, la domanda infinita, “perché”, applicabile a qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, dopo aver avuto qualsiasi risposta. C’è sempre un perché in più da chiedere, ossessionando chi ti sta a sentire.
Un classico esempio di iper-razionalità sono le probabilità. Per sapere se domani pioverà, si possono fare le previsioni del tempo. Servono forse per sapere più o meno quanto pioverà in un periodo, e quanti giorni in un mese. Può far comodo per sapere che vestiti portare in un viaggio, quanto si riempirà una cisterna, se una coltura avrà acqua o meno a sufficienza. Ma se da questo poi ci chiediamo “domani piove ?” abbiamo fatto una domanda tanto lecita e banale quanto iper-razionale. Non c’è risposta, non si sa.
Così in altri ambiti. Chiedersi il perché di un fatto indefinibile, come l’aldilà. Per definizione, è una cosa non nota. Per cui quando ci chiediamo “cosa ci sarà nell’aldilà”, è una forma di iper-razionalità: vogliamo ragionare sull’indefinito. Ne risulta una serie di ipotesi divertenti o affascinanti, che le persone si raccontano tra di loro mentre sono nell’aldiquà.
Oppure, ultimo esempio, se ci siamo lasciati. Torneremo insieme? Lei o lui mi ama davvero? Mi avrà mai amato? Che cosa devo fare? Devo aspettare? Devo troncare? Sono tutte domande che ad un certo punto ci daranno un segnale di “distonia”, cioè di eccesso, di peso, di forzatura. Non servono, e sarebbe meglio se smettessero di insistere quelle domande.
In queste situazioni di ossessione, sarebbe appunto meglio “capire di meno”, poter fare un passo indietro, avere una specie di antidoto alla domanda. Per fortuna spesso la sorte ci spinge avanti e ci salva dal blocco, ma non sempre, perché spesso è opportuno curarsi.
Ricordo uno dei professori di anatomia, il primo anno. Essendo il primo anno, molti studenti erano soliti alzare la mano e fare mille domande, anche solo per mettersi in mostra. In una lezione di anatomia topografica uno alzò la mano. Il professore lo guardò perplesso e gli disse in Toscano “Volevi dì qualcosa? …..’un dì nulla, vai…!”.
Per chi volesse approfondire l’argomento vi consiglio questo libro: Licenza di chiedere – Gita guidata nel disturbo ossessivo compulsivo, del Dott. Matteo Pacini.
Silvia Trevaini
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