Viviamo di rimorsi, di rimpianti, e di traumi?

Si chiamano forse bugie i sogni che non si avverano, o è qualcosa di ancora peggiore che mi spinge giù verso il fiume, anche se so che il fiume è ormai secco….

Bruce Springsteen The River

La memoria noi la viviamo come fosse una visione, un racconto in cui prima vede lo scorcio, il paesaggio, e poi ci si avvicina magari a riconoscere questo o quel dettaglio. E allora col tempo i dettagli magari si dimenticano, e rimane solo un’idea sempre più vaga e sfuocata.

Ma non è detto che funzioni così. Ci sono dettagli che rimangono fissi e si portano dietro il paesaggio. Ci si ricorda un mattone, e intorno a quello rimane la memoria del muro, della casa e delle strade che ci passavano intorno.

“Il legame affettivo è quello che regge il tutto. Diceva un mio professore: tu non ti ricordi un bacio, tu ti ricordi un bel bacio. Ovvio, ma non così tanto se invece poi si pretende di ricordare ciò che ci lascia indifferenti, e ci stupiamo che qualcosa non si sradica più dalla mente.

La memoria senza un valore affettivo è sgranata, e quella che invece è carica di forti valori affettivi è a volte fin troppo efficace”, ci spiega il Dott. Matteo Pacini, medico chirurgo, Specialista in Psichiatria e docente di Medicina delle Dipendenze presso l’università di Pisa.

Viviamo di rimorsi, di rimpianti, e di traumi. Oltre che di quello che abbiamo e ci sta bene. Ma più il tempo trascorre, e più la nostra storia si compone di rimorsi, di rimpianti, e di traumi. C’è un film famoso: Highlander, l’ultimo immortale, con Sean Connery e Cristopher Lambert…il protagonista rimane per sempre giovane, intorno alla trentina, mentre intorno a lui il mondo va avanti, e con il tempo perde ogni volta tutto quello che ha amato, che invecchia, muore o cambia. Il gioco psicologico è che in fondo anche l’essere immortali produrrebbe una condizione di supplizio, perché moltiplicherebbe i lutti, le delusioni e gli abbandoni.

Noi comuni mortali invece siamo chiamati ad un altro tipo di lavoro: dobbiamo fare i conti con l’idea che non duriamo per sempre, e anche, nel mentre, con i traumi, i lutti e gli abbandoni.

E allora dobbiamo solo stare attenti a non rimanerci troppo invischiati, cioè dobbiamo evitare il cosiddetto “dolore patologico”, o “maladattamento alla perdita” o “lutto complicato”, tutti termini per indicare quando dobbiamo ricalcolare la rotta dopo un cambiamento di percorso, e si rimane invece bloccati o ci si perde senza una guida a destinazione.

Si tratta più spesso di ferite subite, a volte anche di colpe, ma il concetto è simile, è ciò che non può essere “acconciato”, come si direbbe a Napoli. Quando è un sogno che poi non si realizza, ci sfoghiamo dicendo che il sogno ci ha mentito, che era tutta una bugia…come nel testo di The River di Springsteen. Ma non è finita qui a volte, perché dopo lo sfogo ci si accorge che il tempo non guarisce, anzi il tempo inizia una sua storia postuma con le cose ormai morte, tramontate. Chi ha perso un affetto non vivrà solo nel ricordo, ma vivrà il ricordo: la sua vita sarò un susseguirsi di giorni in cui la persona non c’è più. Chi ha perso un amore, vivrà il rimpianto di quell’amore, che non solo un problema di ricordo. Chi ha subito un trauma grave, vivrà come se quel trauma fosse sempre attuale, una partita che si svolge sempre senza possibilità di farla finire diversamente, e la storia dopo è la storia di come si è rivissuta in continuazione. Insomma il “dopo” non rimpiazza il “prima”, e non lo continua, ma lo tiene vivo, attivamente. Il problema non diventa come ieri abbiamo vissuto l’errore, l’abbandono, la violenza, ma come oggi viviamo la storia di quell’evento. Così come una ferita che rimane aperta, e poi si infetta, dopo non è più la ferita del tempo, ma è la conseguenza dell’infezione che dopo si è sviluppata, magari facendo più danni di quelli della ferita stessa. Questo è il famoso concetto di “post-traumaticità”. Quando si parla di disturbi “post-traumatici” non si  intende infatti soltanto il fatto che è conseguenza di un trauma, ma anche che il problema da cui si è afflitti è costruito nel tempo, una memoria che è cresciuta nutrita da un meccanismo che non la riesce invece ad archiviare, cosicché si è costretti a gestirla come fosse parte integrante della realtà attuale, come se dovesse sempre esser considerato il problema a monte di ogni decisione, considerazione e posizione.

Cosa c’è quindi di peggio che un sogno andato a male, un amore perduto, un affetto interrotto, un errore imperdonabile….

C’è il fatto che io comunque continui ad andare a cercare la soluzione, e a rinnovare il dolore continuamente nel non trovarla, a meno che non voglia darmi pace del passato, e questo non riesco a farlo.

Nella canzone The River è una semplice storia di vita. lui conosce lei –  siamo in un paese della campagna americana – si mettono insieme e vanno ad amoreggiare sulla riva del fiume, come ogni coppietta del luogo. Poi, essendo lei rimasta incinta, si sposano e sono pieni di progetti e entusiasmo, seppur nei ranghi di quel che è il loro futuro già scritto. Lui lavora, lei cura la casa, la famiglia, la casetta da sistemare….Finché un giorno lui si rende conto che non c’è più sentimento, e che tutto quello che lui non può smettere di vivere (con le memorie nitide e vivide) non esiste se non in una dimensione non più vivibile. Come se non  bastasse, lui non riesce a impedire che quelle memorie “tornino per ossessionarmi, ossessionarmi come una maledizione”, e chiede al cielo appunto cosa è che lo spinge ad andar sulla riva del fiume, così, come a vedere se ci fosse ancora qualcosa, anche se sa che il fiume (metaforicamente)  è ormai secco.

 

Il fiume, per inciso, è anche il simbolo del tempo che passa in un panorama che comunque rimane. Il fiume è sempre lui, ma scorre, cambia. E invece chi va sul fiume sogna un’acqua che non può più esserci.

 

Le sindromi da dolore patologico, che siano dovute al rimorso per errori commessi, al dolore per l’abbandono, al lutto, sono curabili in maniera da attenuare e anche chiudere questo processo di “nutrimento del dolore”. Sia psicoterapeuticamente che con mezzi farmacologici si riesce a dar respiro e slancio al presente, lasciando che il passato mantenga la sua dignità, ma finisca di condizionare “troppo” il presente.

 

trevaini50Silvia Trevaini

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