Nella nostra normalità largamente predominante noi siamo esseri emotivi. La consapevolezza dell’uomo che pensiamo lo renda unico è un livello di emotività diverso. Noi ci vediamo essere felici, soffrire, avere paura, essere imbarazzati. E abbiamo quindi una reazione emotiva alla consapevolezza delle nostre emozioni. “Alcuni esempi in psichiatria sono l’ansia sociale patologica, situazione in cui il vero “tilt” non è dato tanto dall’imbarazzo, ma dalla reazione di paura al vedere sé stessi in imbarazzo (e al pensiero che gli altri lo notino allo stesso modo). Un altro esempio è il panico, nel quale è caratteristico che dopo aver sperimentato l’esperienza di un attacco di panico, rimanga il terrore di poterlo riavere. Anche quando la persona ha compreso che si tratta di panico e non di un infarto, persiste la cosiddetta “paura della paura”. Chi non riesce a muoversi liberamente o stare in determinati ambienti non ha tanto timore di poter morire, quanto paura di trovarsi nella condizione di dover vivere, consapevolmente, un attacco di panico (fobofobia)”, ci spiega il Dott. Matteo Pacini, medico chirurgo, Specialista in Psichiatria e docente di Medicina delle Dipendenze presso l’università di Pisa.
Un soggetto ansioso spesso si sente dire che l’ansia si può controllare, e quando scatta il panico in realtà è perché uno si suggestiona e “se la fa venire”. Non è così, perché è vero che si può entrare in un meccanismo di amplificazione per cui lo spavento fa schizzare in alto i sintomi di partenza, ma tutto ciò non è sotto il controllo di altre funzioni.
Si può certamente gestire lo spavento, cioè avere tecniche per prevenire quella parte che passa attraverso un ragionamento o un’associazione. Si può evitare che scatti, perché spesso lo spavento è dato da un’associazione mentale che non è uguale per tutti. Ad esempio, alcuni si fissano che un determinato sintomo sia importante, o che compiendo delle manovre si debbano placare i sintomi, cosicché poi quando questo non accade o il sintomo compare in maniera intensa, reagiscono come chi, razionalmente, sia convinto di star morendo, o di aver fallito nel mantenere il controllo.
Abbiamo descritto fin qui situazioni in cui la reazione va nello stesso senso della prima emozione: l’ansia sull’ansia. Ma non è sempre questo il rapporto emotivo. Esiste anche il contrario, l’oscuramento. Ad esempio, chi è depresso, oltre un certo limite inizia ad essere in uno stato emotivo che lo avvolge completamente, e con il cuore di depresso non vede più sé stesso depresso, si vede “disgraziato”. Nella depressione profonda l’emozione che si vive è letta con gli stessi occhi, e la depressione non vede sé stessa, si vede normale. Essa, quindi, interpreta la situazione come una logica conseguenza di fallimenti, di errori, come una punizione del destino o una condizione comunque ormai definitiva, che è così oggettivamente, meccanicamente, per dei motivi chiari. Il depresso grave non viene a visita, guarda la prescrizione senza capire a che dovrebbe servire, non la prende spesso se non sollecitato, ed è convinto che “una pillola non cambierà le cose”.
La stessa cosa accade quando l’umore è su di giri. Chi è maniacale non si vede maniacale, si sente e si vede “bene”. Magari non “normale”, perché normale è una parola che indica qualcosa di spento, di grigio. Si vede brillante, lucido, in grado di controbattere in maniera vincente, e soprattutto meritevole di considerazione. Di fronte alle persone che reagiscono con diffidenza, con spavento, con imbarazzo, il soggetto sovraeccitato non capisce, li guarda dall’alto in basso come persone di poco spirito e spessore. Se viene contrastato, non capisce e reagisce di solito come ad una provocazione inaccettabile. La descrizione che le persone ricoverate in trattamento coatto riportano è spesso illuminante sulla natura del loro stato: che cosa è successo? Niente, stavano discutendo al bar, è arrivata la polizia e sono finiti in psichiatria. Erano a casa, hanno chiesto dei soldi ai genitori e per questo sono arrivati i carabinieri. Erano a discutere in piazza e evidentemente non si possono dire le proprie idee liberamente perché si finisce in psichiatria, e così via… L’emotività maniacale non permette di identificare come maniacale il proprio stato, esso è “neutro”. Nei disturbi dell’umore quindi la reazione emotiva combacia con l’emozione di partenza, e la maschera come una macchia cieca nel campo visivo. L’unica situazione in cui il soggetto esprime disagio per il proprio stato emotivo durante un disturbo dell’umore è – a parte quando è ansioso – nello stato misto dell’umore. E una situazione caratteristica in cui la persona “non sa dire come sta”, ha emozioni contrastanti, vede sé stesso eccitato ma con occhi negativi, o in uno stato sognante ha pensieri di morte, o vive contemporaneamente una spinta a far qualcosa e il vuoto interiore di chi non riesce a trovare nessuno scopo.
Infine, l’ambivalenza emotiva. Si possono avere emozioni diverse sulla stessa cosa, in momenti diversi. Sì, e ci sono due situazioni. La prima sono i disturbi del controllo degli impulsi, di cui un esempio sono le dipendenze. Si può trascorrere un tempo anche lungo a ricordare con disagio, vergogna e rimorso i momenti in cui si assumevano droghe, magari rubando o mettendosi in situazioni degradanti, e poi improvvisamente, quando salta fuori la voglia della droga, trovarsi a vivere come una missione il fatto di doversela procurare. Le stesse cose di cui prima ci si vergognava diventano “assi nella manica” da usare per ottenere uno scopo verso cui si mostra una smania intensa. In questo caso si tratta di due emozioni veicolate da due sistemi a diversa velocità: uno è quello razionale che costruisce un’emozione basata su esperienze fatte; l’altro è un sistema a presa rapida che lavora soltanto sulla memoria positiva associata alla droga, che tende a fissarsi in maniera rigida e crescente, perché utilizza una via più veloce. In altre parole, in questo caso le due emozioni fanno come a gara a ruba-bandiera, ma l’emozione istintiva del desiderio di droga vince sempre. Per azzopparla e far vincere l’altra bisogna intervenire con le terapie. Sarà anti-sportivo, ma funziona.
Non abbiamo esaurito con questo tutte le possibili situazioni, ma nel complesso possiamo dire che le emozioni ci controllano, e non si fanno controllare se non attraverso spiragli che ci permettono di insinuarci nel sistema. Nelle forme gravi questi spiragli sono chiusi. I pazienti gravi non sono consapevoli, o non riescono a farsi aiutare, perché interferiscono con le cure stesse, o non riescono ad assumerle perché le loro emozioni li spingono ad esserne spaventati o a rigettarle in quanto inutili, o a viverle come ostacoli alla loro libertà.
A volte però alcune emozioni, per quanto esagerate o parte della condizione, aprono delle brecce: ad esempio un tossicodipendente depresso accetta di farsi aiutare meglio, anche se appena sta emotivamente meglio tenderà a sfuggire alla cura. Un depresso ansioso corre a farsi curare: se non consapevole della depressione, almeno non vuole l’ansia. Un maniacale può percepire a volte degli stati misti che lo mandano nel pallone, e può chiedere di essere rasserenato.
Importante è sapere di volta in volta il gioco che stanno giocando le emozioni in quel disturbo, o malattia che dir si voglia, in modo da spostarle verso l’equilibrio, l’elasticità e la visibilità.
Silvia Trevaini
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