Psicoterapia Interpersonale ‘long distance’ nell’epoca del Coronavirus

La psicoterapia in Italia è ancora concepita quasi esclusivamente come un incontro ‘faccia a faccia’, un momento nel quale silenziare (finalmente…) i cellulari per non essere continuamente interrotti da un WhatsApp o da un sms e, così, parlare nell’ambito di un setting definito e specifico delle proprie ansie, dei propri sintomi o delle proprie difficoltà. Ne parliamo con il Dottor Mario Miniati, Psichiatra Psicoterapeuta del Centro Medico Visconti di Modrone.

Le ultime terribili settimane hanno cambiato in attimo tutto questo, hanno aumentato le distanze, modificato la ritualità dei gesti quotidiani che ci hanno sempre caratterizzato, compresa la possibilità di confrontarci con le figure mediche, con i nostri specialisti di fiducia ‘direttamente’, senza l’intermediazione di alcun mezzo di comunicazione, in un momento di estrema difficoltà per tutti.

In paesi come gli USA o l’Australia, nei quali le distanze sono siderali se confrontate con quelle italiane, da diverso tempo molte professioni non richiedono più un luogo di lavoro chiaramente definito o una presenza fisica. Anche la chirurgia, con l’ausilio della robotica in remoto, consente di compiere operazioni complesse da parte di equipe che operano, connesse tra loro via internet, a miglia di distanza. Perché la psicoterapia dovrebbe essere diversa e non includere la telemedicina?

In USA, sono numerosi gli studi che hanno utilizzato la ‘Telephone-Administered Interpersonal Psychotherapy’, con ottimi risultati nelle forme ansioso-depressive, da quasi 20 anni. Per esempio, nel 2002, è stato condotto dal gruppo di Miller & Weissman uno studio randomizzato di dodici settimane per verificare la fattibilità e l’efficacia della Psicoterapia Interpersonale (IPT) ‘somministrata per telefono’, in un campione di 30 donne con depressione. Al termine dello studio, le pazienti presentavano livelli significativamente più bassi di sintomatologia depressiva e descrivevano miglioramenti rilevanti del loro funzionamento psico-sociale. Inoltre, l’83% delle donne valutate non solo era favorevole, fin dall’inizio, all’uso del telefono ma, nel 75% dei casi, si era detta disposta a continuare il trattamento sempre via telefono, anche dopo la conclusione dello studio. Altri studi sono stati condotti, sempre in USA, su neomamme con depressione post-partum, alle quali sono state fornite dieci settimane di ‘tele-care’, sia con IPT, sia con tecniche di Terapia cognitivo-comportamentale (CBT) sia con tecniche di rilassamento.  

Sempre più clinici oggi si stanno ‘attrezzando’ per essere vicini ai loro utenti e per consentire la ‘continuità terapeutica’, in un momento nel quale il modello tradizionale delle sessioni settimanali nello studio del terapeuta non è, seppur transitoriamente, più applicabile.

La ‘telehealth’ è una realtà, presente da decenni e molti clinici si sentono di poterla proporre ai loro utenti, sempre consapevoli delle implicazioni cliniche e in termini di tutela della privacy che emergono quando la terapia a distanza diventa uno strumento insostituibile.

 

 trevaini50Silvia Trevaini

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