La paura di non essere abbastanza

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Le paure sono figlie del tempo in cui si vive. L’uomo primitivo temeva il buio, gli animali aggressivi e le forze della natura. L’uomo antico temeva l’esercito nemico, la schiavitù, la divinità e la fame. L’uomo attuale, invece, teme di non essere abbastanza. Certo ha anche altre paure: ecologiche, belliche, burocratiche, economiche, sentimentali, senili, esistenziali e via dicendo. Ma, in mezzo a tutte queste, svetta proprio quella di non essere abbastanza. Le psicoterapie lo rivelano con chiarezza: ciò che spinge la persona a chiedere un aiuto è molto spesso la sensazione/certezza di non bastare; come persona, come amante, come lavoratore, come risultati, come cultura… La maggioranza dei disagi nasce da qui, sebbene spesso s’incarni in timori più specifici. I sogni ricorrenti, del resto, parlano chiaro: l’esame di maturità da rifare per l’ennesima volta, non riuscire a superare un ostacolo, sentirsi inadeguati di fronte una situazione strana… Si fa di tutto per far andare bene le cose, ma quella paura rimane, intatta e fastidiosa, a creare frustrazione e stress.
È una paura che non ci lascia tranquilli, come se fosse arcaica quanto quella del buio, come se venisse ancor prima delle esperienze che facciamo e restasse poi insensibile ai risultati ottenuti e agli sforzi profusi. Spinge a fare la prestazione – qualunque cosa riguardi – ma la prestazione non basta mai. È come una “mancanza strutturale” di qualcosa di fondamentale, per cui, qualsiasi cosa si faccia, la si fa con questa mancanza e quindi non potrà bastare. Attenzione, questa paura non nasce dal nulla, non è una paturnia. Se ce la ritroviamo addosso ci sono motivi ben riconoscibili. Cominciamo col dire che la realtà esterna sembra non fare altro che fomentarla. Non ci fa mai sentire abbastanza: chiede e poi chiede e poi chiede ancora, in ogni ambito. Devi assolutamente rientrare in certi parametri: estetici, fiscali, di status, di performance, di risultati, di upgrade, di genitorialità, di socialità, altrimenti non vai bene e verrai escluso, multato, non considerato. C’è dunque una collettiva pressione al “dover essere” che fa sentire una “mancanza di essere”. Una pressione che molti, sebbene in altra forma, hanno percepito anche nelle aspettative genitoriali, condite da frasi come “Si può sempre fare di più”, di conseguenza “ciò che fai non potrà mai essere abbastanza”. E poi c’è il Super-io, quella struttura psichica che, sommando tra loro tutte le regole, le attese e i parametri degli ambiti di riferimento, ci stressa dall’interno dicendo all’io se andiamo bene oppure no. E quasi sempre è no: non sei abbastanza, non fai abbastanza. Ed è fondamentale comprendere che qui non si tratta della paura di non essere accettati. Qui la paura è proprio di non farcela a essere. Non sappiamo più cosa fare per avere la sensazione di avere fatto abbastanza.

Come nasce la convinzione di non essere abbastanza?

La nostra autostima dipende moltissimo dalle esperienze che abbiamo avuto nei primi anni di vita: se le relazioni con le persone che si occupavano di noi (genitori, nonni, insegnanti, ecc) sono state positive e gratificanti avremmo sviluppato probabilmente un’immagine positiva di noi stessi. Al contrario, se i rapporti con chi ci stava vicino sono stati improntati sulla freddezza e sulle critiche, quasi sicuramente avremmo sviluppato un’opinione negativa di noi stessi e faremmo fatica ad accettarci e a credere nelle nostre potenzialità. Il bambino, che non si sente accettato per quello che è veramente nella totalità del suo essere, tende ad incolparsi e a pensare:” Se i miei genitori mi criticano/ mi paragonano agli altri/ non mi vogliono abbastanza bene, allora deve esserci qualcosa che non va in me”. Questo bambino comincerà a credere che i suoi genitori non lo apprezzano abbastanza perché lui è stupido, cattivo, sbagliato, non si merita l’amore e comincerà a sviluppare un’immagine negativa di sé stesso. E così, involontariamente, si tendono a sabotare le occasioni di autoaffermazione e a fuggire dalle opportunità. Si innesca un meccanismo di difesa per paura di dover prendere in mano la propria vita, essere costretti a fare qualcosa, a cambiare davvero. Perché alla fine si ha più confidenza con il fallimento che con il successo. Fallire è un po’ tornare sui propri passi, riuscire vuol dire compiere delle trasformazioni, dentro e fuori di sé. La paura di arrivare e non esserne all’altezza può riproporci continui insuccessi. Se riusciamo in una dieta, per fare un esempio semplice, si diventa probabilmente più attraenti per gli altri e questo può compromettere la nostra relazione attuale, potremmo ritrovarci a non saper più gestire situazioni nuove. Così, fallire significa rimanere nei nostri odiati ma rassicuranti chili di troppo.

Guardarsi con occhi più benevoli

Dipende solo da noi decidere di essere veramente all’altezza delle aspettative, di potercela fare. Uscire dal circolo vizioso della svalutazione vuol dire ad esempio: riconoscersi il diritto di essere amati e rispettati indipendentemente dalle performance personali e sociali; accettare la presenza di eventuali difetti o mancanze come aspetti che non mettono in discussione la dignità come essere umano; mantenere una prospettiva stabile del valore personale anche quando si ricevono critiche e rifiuti; distaccarsi dall’atteggiamento difensivo, evitante/passivo o aggressivo allo scopo di avere delle aspettative meno rigide nei confronti di se stessi e degli altri. Ciò può diventare molto difficile per qualcuno: è importante quindi, in questi casi, rivolgersi ad un professionista per attivare quel cambiamento che porterebbe a stare molto meglio con sé stessi e a godersi i traguardi personali, anche piccoli.

trevaini50Silvia Trevaini

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