L’ansia da prestazione ha una definizione semplice, è la paura di fallire in una prova, che si manifesta sul momento, quando inizia la prova. Si distingue quindi dall’ansia anticipatoria, anche se è concatenata con essa. Innanzitutto, conta la struttura di personalità. Ci sono persone che puntano su sé stessi, sul proprio successo, in una maniera estremamente rigida e perfezionistica: o riescono, al meglio; o falliscono. Ciò implica che ogni risultato intermedio che può profilarsi durante la prestazione innesca una crisi, quasi che la reazione ad un mancato successo totale debba favorire un insuccesso totale. Pur essendo assurdo, in un certo senso una persona con una rigidità estrema di questo tipo può sapere come comportarsi solo in queste due condizioni: o va tutto liscio, o “a monte”. Addirittura, se l’ansia cresce già prima della prestazione, questa è annullata: non si va all’esame, si rimanda all’ultimo. Infine, vi sono forme in cui l’ansia di prestazione rallenta addirittura la preparazione alla prova, per cui non si riesce a studiare in vista di un esame, poiché al solo pensiero subentra un’ansia paralizzante circa il possibile fallimento. E’ chiaro in questi casi che l’ansia non è relativa alla prestazione in sé, quanto alla tensione da aspettativa generale su di sé. Ne parliamo con il Dott. Matteo Pacini, medico chirurgo, Specialista in Psichiatria e docente di Medicina delle Dipendenze presso l’università di Pisa. Continua a leggere
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Misogino: l’odio e il disprezzo verso la donna
Misoginia è un termine che segna un’epoca. Oggi probabilmente si direbbe ginofobia. Sarà forse perché la parola suona male o è incomponibile, ma chi odia gli omosessuali non è stato indicato come miso-omo… qualcosa, è prevalso il termine “omo-fobo”. Non è un dettaglio, perché “miso” vuol dire “che odia”, mentre invece “fobo” è “che ha paura”. Oggi c’è una vera e propria tendenza mentale a dire che chi mostra comportamenti ostili, discriminanti o intolleranti verso qualcuno, sotto sotto ne ha paura. Questo “sotto sotto” è un concetto psicanalitico: ciò che appare è l’odio, ma maschera una pulsione diversa, che è la paura. Paura di fusione, di essere assimilato e della propria parte simile all’altro. Quindi chi odia gli omosessuali avrebbe sotto sotto paura degli omosessuali, ma questo perché in ultima analisi avrebbe paura della propria parte omosessuale, e cercherebbe di negarla dichiarandola inaccettabile. C’è chi lo fa con lo scherno, chi con la regola religiosa, chi con un generico disdegno, ma in realtà l’odio vero non esiste, è questione di paura, paura di sé stessi. Però io ci andrei piano con le parole, nel senso che prima farei parlare i fenomeni. Chi odia le donne in realtà ne ha paura, ha timore della propria parte femminile e la rifiuta al punto da odiare le donne in generale. Siamo sicuri? Ne parliamo con il Dott. Matteo Pacini, medico chirurgo, Specialista in Psichiatria e docente di Medicina delle Dipendenze presso l’università di Pisa. Continua a leggere
Si può imparare a gestire le proprie emozioni?
Nella nostra normalità largamente predominante noi siamo esseri emotivi. La consapevolezza dell’uomo che pensiamo lo renda unico è un livello di emotività diverso. Noi ci vediamo essere felici, soffrire, avere paura, essere imbarazzati. E abbiamo quindi una reazione emotiva alla consapevolezza delle nostre emozioni. “Alcuni esempi in psichiatria sono l’ansia sociale patologica, situazione in cui il vero “tilt” non è dato tanto dall’imbarazzo, ma dalla reazione di paura al vedere sé stessi in imbarazzo (e al pensiero che gli altri lo notino allo stesso modo). Un altro esempio è il panico, nel quale è caratteristico che dopo aver sperimentato l’esperienza di un attacco di panico, rimanga il terrore di poterlo riavere. Anche quando la persona ha compreso che si tratta di panico e non di un infarto, persiste la cosiddetta “paura della paura”. Chi non riesce a muoversi liberamente o stare in determinati ambienti non ha tanto timore di poter morire, quanto paura di trovarsi nella condizione di dover vivere, consapevolmente, un attacco di panico (fobofobia)”, ci spiega il Dott. Matteo Pacini, medico chirurgo, Specialista in Psichiatria e docente di Medicina delle Dipendenze presso l’università di Pisa. Continua a leggere
La violenza psicologica
La violenza psicologica è un’azione, o meglio un ripetersi di azioni, che colpiscono in maniera consapevole il cervello di una persona, provocando una reazione variabile, ma a partire da un primo effetto comune: il superamento della capacità di difesa immediata e la produzione quindi di una cosiddetta “ferita”. Cosa siano concretamente le violenze lo sappiamo o possiamo immaginarlo tutti, anche perché sono temi di attualità, che la società sta cercando di ripensare e sistemare, come il bullismo, la discriminazione, l’odio per determinate categorie, l’intimidazione e emarginazione sistematica sui luoghi di lavoro (mobbing). Lo sono anche fenomeni ristretti a coppie di soggetti, come le molestie assillanti (stalking) o la violenza privata fino alla segregazione, alla riduzione in schiavitù. Lo sono anche, in maniera automatica per legge, ma con un senso anche biologico, tutte quelle forme di coinvolgimento strumentale di minori o di persone con fragilità mentali in rapporti da cui un adulto non fragile trae un piacere personale o un guadagno sbilanciato su di sé, anche se il minore è apparentemente consenziente. In altre parole, quelle situazioni in cui si è usati o sfruttati in condizioni di inferiorità o di sudditanza, anche senza che sia messa in atto una esplicita minaccia. Approfondiamo l’argomento con il Dott. Matteo Pacini, medico chirurgo, Specialista in Psichiatria e docente di Medicina delle Dipendenze presso l’università di Pisa. Continua a leggere
Quando l’ansia non fa dormire
“Da tre notti non riposo, resto ad ascoltare…è la vipera che soffia, che soffia presso l’acqua”
Una delle accoppiate commerciali più fortunate è insonnia/sonnifero. A giudicare dalla mole di sonniferi venduti, si ricava che l’assunzione deve essere in molti casi regolare, ogni sera per lunghi periodi. Ciò risulta strano rispetto alle azioni dei principali sonniferi, perché il loro effetto tende a estinguersi dopo alcune settimane, e l’uso che se ne raccomanda è per periodi brevi, onde evitare l’assuefazione. Si direbbe quindi che una massa di persone abbia perso la capacità fisiologica di dormire, o che non si fidi di poterlo fare senza sonnifero. La consuetudine con questi farmaci diventa tale che molti si scordano perfino di menzionarli quando devono dire la lista di medicine che assumono. Salta fuori dopo, alla fine, o soltanto perché lo si chiede esplicitamente. C’è un sottointeso spesso in quel non menzionarlo, che è “non sono venuto qui per mettere in discussione il mio sonnifero, quello lo gestisco io”. Cosa può essere allo stesso tempo così forte da tenere le persone “strette” alle loro abitudini rassicuranti e al contempo anche molto diffuso, quindi non così strano…? L’ansia. Ne parliamo con il Dott. Matteo Pacini, medico chirurgo, Specialista in Psichiatria e docente di Medicina delle Dipendenze presso l’università di Pisa. Continua a leggere
Perché abbiamo il senso di colpa
Il senso di colpa è uno dei sentimenti più rari e particolari che si possa osservare in una persona. Non parliamo naturalmente del dispiacere transitorio di quando si pesta un piede a qualcuno per errore, o al tradimento fatto però con cognizione di causa, in cui sì, dispiace, ma d’altra parte lo si è fatto per un motivo che sul momento sembra valido. Questione anche di come gira la sorte. “Il senso di colpa è per esempio difficilissimo da valutare laddove invece la società si propone sistematicamente di valutarne peso e autenticità: nei responsabili di reati. Come è possibile pensare di valutare il senso di colpa di chi è stato arrestato o condannato ? Una volta che un progetto è fallito, certo che la persona ha spazio mentale per sentirsi in colpa, ma in colpa soprattutto di aver sbagliato a scegliere di compiere un gesto che poi lo ha portato ad aver guai con la legge”, ci spiega il Dott. Matteo Pacini, medico chirurgo, Specialista in Psichiatria e docente di Medicina delle Dipendenze presso l’università di Pisa.